“ESSERE CHIESA… PER FARE CHIESA”
I - “SINODALITA’ …SENZA SINODO”
II - “UN SINODOPER…LA SINODALITÀ”
III – “UNA CHIESA SINODALE È UNA COMUNITÀ IN ASCOLTO
IV - “UN COMANDAMENTO PER LA SINODALITÀ”
In modo un po’ frammentario ho già espresso su questo blog alcune considerazioni riguardo al “percorso sinodale” che stiamo facendo nelle chiese italiane, sulla scia delle forti suggestioni di papa Francesco per tutta la Chiesa cattolica.
In un suo intervento all’Azione Cattolica ha introdotto un commento a margine: liberarci dai nostri timori e dalle nostre paure sulla sinodalità e aprirci una strada praticabile. «In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare. E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società... È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante»
Nell’ascoltare il vangelo della V domenica di Pasqua/C (Giovanni 13,31…35) mi sono venute alla mente alcune riflessioni sulla SINODALITA’ che vorrei condividere riguardo al fondamento evangelico non tanto della sinodalità, già abbastanza attestata nello “stile” di Gesù stesso che “cammina con” i suoi discepoli per le strade della Galilea, della Giudea e della Samaria (cf Matteo
4,23; 9,35) ma del suo fondamento: la comunione trinitaria affermata da Gesù proprio nell’evangelo di Giovanni e includente anche “i suoi”. Il culmine è sicuramente nel capitolo 17 dove è proprio Gesù a chiedere che “siano una cosa solo in noi, come io e te [Padre] siamo uno” (vv. 11b. 22).
Giovanni Crisostomo così si esprime: «Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme» (Ekklesía gár systématos kaí synódou estìn ónoma, EX. IN PSALM. 149, 2; PG 55, 493). Questo mette in luce il duplice aspetto della sinodalità, il “convenire” (anche in senso liturgico) e il “camminare” (più come atteggiamento evangelizzante). Il primo mette in risalto il fondamento eucaristico, sorgente della communio; il secondo la modalità evangelica e fraterna con cui essa si attua.
Ma la vetta si raggiunge attraverso un percorso progressivo, pedagogico, che parte dalla relazione e dalla sua modalità di attuazione: “perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (v. 26b).
È l’amore [agape] del Padre per Lui e per tutta l’umanità che spinge il Figlio a “camminare con noi”, ad essere “la via” (cf Gv 14,6).
Addirittura a far diventare l’agape un “comandamento”!
Non intendiamolo però con un ordine o un’ingiunzione perentoria, piuttosto come un’indicazione di percorso per diventare “una cosa sola” e perché “il mondo creda” (cf v. 21). L’amore manifestato dal Nazareno ci pone difronte all’altro non come ad un limite ma “un’occasione di amore, di accoglienza e non di rigetto, di riconoscimento e non di negazione, di ospitalità e non di ostilità” (COMUNITÀ DI BOSE).
Esso diventa un comandamento, non un ordine o un’ingiunzione, ma un modo di camminare insieme [mandatum in latino; con un riferimento un po’ originale: cum andare] così ciò che è intra personale diventa relazionale e comunitario, ciò che reciprocamente unisce diviene forza di evangelizzazione.
Vorrei proporre qualche riflessione in merito.
L’agàpe per l’evangelista Giovanni si rivela come il senso e il contenuto di tutta l’azione salvifica del Padre verso l’umanità attraverso il Figlio, ed essa ora continua ad agire nell’amore reciproco all’interno della comunità credente che cerca di vivere il precetto del Signore: “che vi amiate gli uni gli altri” (15,12) e in questo modo continua a manifestarsi l’amore del Padre verso tutti i suoi figli e figlie.
Il reciproco dimorare costituisce il modo di “essere in Gesù” del credente e della comunità: la “nuova alleanza” si basa su questa realtà ed è “vincolata” all’amore reciproco che Lui comanda. L’amore comandato a noi è per Gesù l’amore ricevuto dal Padre come comando di amare noi da amici fino a dare la vita per noi (cf vv. 9-10b.12.13-14).
La legge costitutiva della comunità credente, l’amore reciproco, ha sempre come punto di riferimento quello del servizio di Gesù stesso e non un sentimento vicendevole: è disponibilità a dare la propria vita (cf 13,1.14).
In 13,34-35 Gesù avrebbe già consegnato questo “comando”, con una formulazione identica anche se più diretta e imperativa, che lo evidenzia come “nuovo”, da cui dipende la testimonianza credibile da discepoli del Signore.
Qui Gesù aggiunge questo comando come “il mio” (v. 12b).
Credo che siano tre le affermazioni fondamentali alla comprensione di quanto il Signore chieda ai suoi discepoli ed a noi.
1. Anzitutto “mio”, di chi lo sta proponendo, ma che ola” la sua esistenza di Figlio nei confronti del Padre e di noi.
Poco prima, nei vv. 9-10, Egli descrive la sua esistenza di Figlio in quanto amato (in consonanza con i sinottici all’immersione nel Giordano e nella trasfigurazione sul monte: Mc 1,11; 9,7b; Mt 3, 17; 17,5b; Lc 3,22b; anche 3,35 e 17,23b.) e di conseguenza Egli ama noi nello stesso modo e dello stesso amore, permettendoci di dimorare in esso: essere discepoli, scelti da Lui come amici, vuol dire essere amati in modo permanente, vivere in pienezza è quindi dimorare il Lui nel suo amore.
È possibile per noi, così limitati, fondare la nostra esistenza su questa realtà? Gesù ce ne fa dono, nel consegnare la sua vita per noi; il suo è un amore incondizionato, gratuito che pone solo una condizione per essere vissuto, quella sua stessa (cf v. 13). Il comando è “il suo” perché anzitutto Egli lo osserva nei confronti del Padre, non per costrizione ma per adesione libera (cf 10,11) e perché nell’amare come è amato si realizza la sua esistenza di Figlio.
Diventa “nostro” non solo come precetto da osservare, anche fosse per gratitudine e riconoscenza; non essendo noi servi, ma amici esso diventa una “logica relazionale” i cui limiti sono soltanto nella nostra libera scelta. Scriveva Italo Calvino, al termine del suo romanzo “La giornata di uno scrutatore”: “L’amore non ha confini se non quelli che noi gli diamo”, e l’amore di Gesù sta nel dare la vita! Egli, da amico comunica a noi tutto di sé stesso, il che ci rende possibile una nuova e vera conoscenza di Dio (1Giovanni).
2. Qui sta anche il senso di “nuovo” (cf 13,34).
Potremmo dire che non esisteva prima un simile comandamento? Non ve ne è traccia nella Bibbia, anche se la cosiddetta “regola d’oro” gli si avvicina: “Fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te” (cf Mt 7,12).
“Mio e nuovo” non si possono separare, infatti la “novità” sta proprio nel fatto che è di Gesù, suo nella proposta e nella modalità e nella misura.
Non è conseguenza etica di un comportamento nostro adeguato al suo, ma accoglienza del suo amore in noi che ci porta a fare nostro ciò che è suo. In altre parole è come se Egli “in noi” amasse gli altri come Lui ci ama.
Questo è anche il senso del “come io” che dice il motivo, la causa, il paradigma e la finalità. Qual è stata l’esperienza di Giovanni e delle sue comunità per arrivare a porre un’altra modalità e un’altra capacità, quella della “reciprocità”?
Di sicuro, quello che può sembra frutto di un percorso intellettuale, in realtà è scaturito dall’esperienza intensa e coinvolgente, anche se pur fragile, come deduciamo dalla sua prima lettera (cf 1Gv 3,10.11.15-16.23-24a; 4,7-12.15-16). Ora questo sarebbe tutto da approfondire, soprattutto quando ci viene detto che è il messaggio ricevuto “da principio” (v. 11; cf 16,4b; Gv 1,1) e che “vedendo e amando il fratello, si vede e si ama Dio” (cf vv.19-21) e che addirittura “l’amore reciproco tra noi rende visibile e conoscibile Dio che è amore”! (cf v. 12; cf Gv 1,18).
3. Quest’ultima affermazione ci fa entrare nella terza dimensione che ha in sé l’amore reciproco, nei confronti del mondo: l’umanità arriverà così finalmente a credere in Gesù (cf 14,31). Tutto il racconto evangelico di Giovanni, soprattutto la prima parte “il libro dei segni” nei (capp. 2 – 12), ha quest’obbiettivo, ma lo vediamo presente fino al termine dei “discorsi della cena”, dove in 17,21.23 Gesù parla dell’unità.
Se l’unità tra i discepoli suscita l’adesione del mondo a Gesù come Inviato del Padre, il loro “amore gli uni per gli altri” li faranno riconoscere da tutti come “suoi” (cf 13,35). Il compito dei discepoli e dei credenti è quello di “dare testimonianza nei confronti di Gesù” (cf 15,27; 17,18) quale migliore testimonianza dell’amore fino alla fine, fino al nemico, che diventa possibile e capace di suscitare reciprocità!
Quale dono più grande di Dio agli esseri umani? L’agàpe!
Ecco la “vita piena, feconda, vera/autentica, incorruttibile e indefettibile”: amare in modo e nella misura tale “come” Gesù, capace di suscitare nell’altro una risposta libera e consapevole! La presentazione del comandamento dell’amore reciproco costituisce nella parte centrale del capitolo 15 un’inclusione interessante:
v. 12: “che vi amiate gli uni gli altri”
v. 13: “dare la vita è l’amore più grande”
v. 14: “voi siete miei amici se fate il mio comando”
v. 15: “vi chiamo amici, non servi”
v. 16: “io vi scelsi perché siate fecondi”
v. 17: “che vi amiate gli uni gli altri”
Al centro sta il rapporto di amicizia con Gesù (vv. 14-15) e quindi ribadisce che l’osservanza del “suo” comandamento è una questione d’amore, non obbliga ma gratifica nel praticarlo: Lui ci ama liberamente e l’amarci è la nostra libertà!
In effetti l’atteggiamento usuale nei confronti di un comando è quello servile, anche nei confronti della Torah era promessa “la felicità”, ma era comunque comunemente avvertita come un “giogo” da portare (cf Deuteronomio 6,3; Mt 11,29-30; Galati 5,1). Qui, invece, chi comanda non si separa creando distanza, piuttosto “si dona” unificando così l’intimo di chi lo esegue, sentendosi unito agli altri. È il senso del comandare nel “cum andare”, andare insieme, (ma anche del mandatum al missum) dono dell’unità.
L’autenticità dell’amore sarà anzitutto attestata dal frutto della sua piena gioia, segno di una vita feconda, pienamente vissuta e realizzata (cf v. 11); ulteriormente dal dono del Padre nella preghiera (cf v. 16c).
La consapevolezza nostra è di essere stati amati per primi e che “non siamo stati noi ad amare…”, quindi l’autenticità e l’efficacia di questa esperienza d’amore vengono dall’essere un dono ricevuto (cf 1Giovanni 4,7-10).
Perché esso “rimanga” e ci permetta di “rimanere” uniti come “tralci nella vite” non va interrotta quella reciprocità da cui proviene e che si estende in misura universale a tutti, amati e riconosciuti come amici, fratelli.
La vita di discepoli e di credenti che credono nell’amore del Padre per loro attraverso la vita donata di Gesù, è una “vita piena della sua gioia e della confidenza nel Padre”. Il frutto/grappolo di quella vite di cui noi siamo i tralci è dato dalla fecondità dell’amore e dell’amare che scorre in noi e tra noi, dal Padre attraverso Gesù. È questo il senso del mandato “andiate e/a portiate frutto” che dà anche al “che rimanga” un originale senso dinamico e non statico (cf 15,16b).
I - “SINODALITA’ …SENZA SINODO”
II - “UN SINODOPER…LA SINODALITÀ”
III – “UNA CHIESA SINODALE È UNA COMUNITÀ IN ASCOLTO
IV - “UN COMANDAMENTO PER LA SINODALITÀ”
In modo un po’ frammentario ho già espresso su questo blog alcune considerazioni riguardo al “percorso sinodale” che stiamo facendo nelle chiese italiane, sulla scia delle forti suggestioni di papa Francesco per tutta la Chiesa cattolica.
In un suo intervento all’Azione Cattolica ha introdotto un commento a margine: liberarci dai nostri timori e dalle nostre paure sulla sinodalità e aprirci una strada praticabile. «In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare. E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società... È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante»
Nell’ascoltare il vangelo della V domenica di Pasqua/C (Giovanni 13,31…35) mi sono venute alla mente alcune riflessioni sulla SINODALITA’ che vorrei condividere riguardo al fondamento evangelico non tanto della sinodalità, già abbastanza attestata nello “stile” di Gesù stesso che “cammina con” i suoi discepoli per le strade della Galilea, della Giudea e della Samaria (cf Matteo
4,23; 9,35) ma del suo fondamento: la comunione trinitaria affermata da Gesù proprio nell’evangelo di Giovanni e includente anche “i suoi”. Il culmine è sicuramente nel capitolo 17 dove è proprio Gesù a chiedere che “siano una cosa solo in noi, come io e te [Padre] siamo uno” (vv. 11b. 22).
Giovanni Crisostomo così si esprime: «Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme» (Ekklesía gár systématos kaí synódou estìn ónoma, EX. IN PSALM. 149, 2; PG 55, 493). Questo mette in luce il duplice aspetto della sinodalità, il “convenire” (anche in senso liturgico) e il “camminare” (più come atteggiamento evangelizzante). Il primo mette in risalto il fondamento eucaristico, sorgente della communio; il secondo la modalità evangelica e fraterna con cui essa si attua.
Ma la vetta si raggiunge attraverso un percorso progressivo, pedagogico, che parte dalla relazione e dalla sua modalità di attuazione: “perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (v. 26b).
È l’amore [agape] del Padre per Lui e per tutta l’umanità che spinge il Figlio a “camminare con noi”, ad essere “la via” (cf Gv 14,6).
Addirittura a far diventare l’agape un “comandamento”!
Non intendiamolo però con un ordine o un’ingiunzione perentoria, piuttosto come un’indicazione di percorso per diventare “una cosa sola” e perché “il mondo creda” (cf v. 21). L’amore manifestato dal Nazareno ci pone difronte all’altro non come ad un limite ma “un’occasione di amore, di accoglienza e non di rigetto, di riconoscimento e non di negazione, di ospitalità e non di ostilità” (COMUNITÀ DI BOSE).
Esso diventa un comandamento, non un ordine o un’ingiunzione, ma un modo di camminare insieme [mandatum in latino; con un riferimento un po’ originale: cum andare] così ciò che è intra personale diventa relazionale e comunitario, ciò che reciprocamente unisce diviene forza di evangelizzazione.
Vorrei proporre qualche riflessione in merito.
L’agàpe per l’evangelista Giovanni si rivela come il senso e il contenuto di tutta l’azione salvifica del Padre verso l’umanità attraverso il Figlio, ed essa ora continua ad agire nell’amore reciproco all’interno della comunità credente che cerca di vivere il precetto del Signore: “che vi amiate gli uni gli altri” (15,12) e in questo modo continua a manifestarsi l’amore del Padre verso tutti i suoi figli e figlie.
Il reciproco dimorare costituisce il modo di “essere in Gesù” del credente e della comunità: la “nuova alleanza” si basa su questa realtà ed è “vincolata” all’amore reciproco che Lui comanda. L’amore comandato a noi è per Gesù l’amore ricevuto dal Padre come comando di amare noi da amici fino a dare la vita per noi (cf vv. 9-10b.12.13-14).
La legge costitutiva della comunità credente, l’amore reciproco, ha sempre come punto di riferimento quello del servizio di Gesù stesso e non un sentimento vicendevole: è disponibilità a dare la propria vita (cf 13,1.14).
In 13,34-35 Gesù avrebbe già consegnato questo “comando”, con una formulazione identica anche se più diretta e imperativa, che lo evidenzia come “nuovo”, da cui dipende la testimonianza credibile da discepoli del Signore.
Qui Gesù aggiunge questo comando come “il mio” (v. 12b).
Credo che siano tre le affermazioni fondamentali alla comprensione di quanto il Signore chieda ai suoi discepoli ed a noi.
1. Anzitutto “mio”, di chi lo sta proponendo, ma che ola” la sua esistenza di Figlio nei confronti del Padre e di noi.
Poco prima, nei vv. 9-10, Egli descrive la sua esistenza di Figlio in quanto amato (in consonanza con i sinottici all’immersione nel Giordano e nella trasfigurazione sul monte: Mc 1,11; 9,7b; Mt 3, 17; 17,5b; Lc 3,22b; anche 3,35 e 17,23b.) e di conseguenza Egli ama noi nello stesso modo e dello stesso amore, permettendoci di dimorare in esso: essere discepoli, scelti da Lui come amici, vuol dire essere amati in modo permanente, vivere in pienezza è quindi dimorare il Lui nel suo amore.
È possibile per noi, così limitati, fondare la nostra esistenza su questa realtà? Gesù ce ne fa dono, nel consegnare la sua vita per noi; il suo è un amore incondizionato, gratuito che pone solo una condizione per essere vissuto, quella sua stessa (cf v. 13). Il comando è “il suo” perché anzitutto Egli lo osserva nei confronti del Padre, non per costrizione ma per adesione libera (cf 10,11) e perché nell’amare come è amato si realizza la sua esistenza di Figlio.
Diventa “nostro” non solo come precetto da osservare, anche fosse per gratitudine e riconoscenza; non essendo noi servi, ma amici esso diventa una “logica relazionale” i cui limiti sono soltanto nella nostra libera scelta. Scriveva Italo Calvino, al termine del suo romanzo “La giornata di uno scrutatore”: “L’amore non ha confini se non quelli che noi gli diamo”, e l’amore di Gesù sta nel dare la vita! Egli, da amico comunica a noi tutto di sé stesso, il che ci rende possibile una nuova e vera conoscenza di Dio (1Giovanni).
2. Qui sta anche il senso di “nuovo” (cf 13,34).
Potremmo dire che non esisteva prima un simile comandamento? Non ve ne è traccia nella Bibbia, anche se la cosiddetta “regola d’oro” gli si avvicina: “Fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te” (cf Mt 7,12).
“Mio e nuovo” non si possono separare, infatti la “novità” sta proprio nel fatto che è di Gesù, suo nella proposta e nella modalità e nella misura.
Non è conseguenza etica di un comportamento nostro adeguato al suo, ma accoglienza del suo amore in noi che ci porta a fare nostro ciò che è suo. In altre parole è come se Egli “in noi” amasse gli altri come Lui ci ama.
Questo è anche il senso del “come io” che dice il motivo, la causa, il paradigma e la finalità. Qual è stata l’esperienza di Giovanni e delle sue comunità per arrivare a porre un’altra modalità e un’altra capacità, quella della “reciprocità”?
Di sicuro, quello che può sembra frutto di un percorso intellettuale, in realtà è scaturito dall’esperienza intensa e coinvolgente, anche se pur fragile, come deduciamo dalla sua prima lettera (cf 1Gv 3,10.11.15-16.23-24a; 4,7-12.15-16). Ora questo sarebbe tutto da approfondire, soprattutto quando ci viene detto che è il messaggio ricevuto “da principio” (v. 11; cf 16,4b; Gv 1,1) e che “vedendo e amando il fratello, si vede e si ama Dio” (cf vv.19-21) e che addirittura “l’amore reciproco tra noi rende visibile e conoscibile Dio che è amore”! (cf v. 12; cf Gv 1,18).
3. Quest’ultima affermazione ci fa entrare nella terza dimensione che ha in sé l’amore reciproco, nei confronti del mondo: l’umanità arriverà così finalmente a credere in Gesù (cf 14,31). Tutto il racconto evangelico di Giovanni, soprattutto la prima parte “il libro dei segni” nei (capp. 2 – 12), ha quest’obbiettivo, ma lo vediamo presente fino al termine dei “discorsi della cena”, dove in 17,21.23 Gesù parla dell’unità.
Se l’unità tra i discepoli suscita l’adesione del mondo a Gesù come Inviato del Padre, il loro “amore gli uni per gli altri” li faranno riconoscere da tutti come “suoi” (cf 13,35). Il compito dei discepoli e dei credenti è quello di “dare testimonianza nei confronti di Gesù” (cf 15,27; 17,18) quale migliore testimonianza dell’amore fino alla fine, fino al nemico, che diventa possibile e capace di suscitare reciprocità!
Quale dono più grande di Dio agli esseri umani? L’agàpe!
Ecco la “vita piena, feconda, vera/autentica, incorruttibile e indefettibile”: amare in modo e nella misura tale “come” Gesù, capace di suscitare nell’altro una risposta libera e consapevole! La presentazione del comandamento dell’amore reciproco costituisce nella parte centrale del capitolo 15 un’inclusione interessante:
v. 12: “che vi amiate gli uni gli altri”
v. 13: “dare la vita è l’amore più grande”
v. 14: “voi siete miei amici se fate il mio comando”
v. 15: “vi chiamo amici, non servi”
v. 16: “io vi scelsi perché siate fecondi”
v. 17: “che vi amiate gli uni gli altri”
Al centro sta il rapporto di amicizia con Gesù (vv. 14-15) e quindi ribadisce che l’osservanza del “suo” comandamento è una questione d’amore, non obbliga ma gratifica nel praticarlo: Lui ci ama liberamente e l’amarci è la nostra libertà!
In effetti l’atteggiamento usuale nei confronti di un comando è quello servile, anche nei confronti della Torah era promessa “la felicità”, ma era comunque comunemente avvertita come un “giogo” da portare (cf Deuteronomio 6,3; Mt 11,29-30; Galati 5,1). Qui, invece, chi comanda non si separa creando distanza, piuttosto “si dona” unificando così l’intimo di chi lo esegue, sentendosi unito agli altri. È il senso del comandare nel “cum andare”, andare insieme, (ma anche del mandatum al missum) dono dell’unità.
L’autenticità dell’amore sarà anzitutto attestata dal frutto della sua piena gioia, segno di una vita feconda, pienamente vissuta e realizzata (cf v. 11); ulteriormente dal dono del Padre nella preghiera (cf v. 16c).
La consapevolezza nostra è di essere stati amati per primi e che “non siamo stati noi ad amare…”, quindi l’autenticità e l’efficacia di questa esperienza d’amore vengono dall’essere un dono ricevuto (cf 1Giovanni 4,7-10).
Perché esso “rimanga” e ci permetta di “rimanere” uniti come “tralci nella vite” non va interrotta quella reciprocità da cui proviene e che si estende in misura universale a tutti, amati e riconosciuti come amici, fratelli.
La vita di discepoli e di credenti che credono nell’amore del Padre per loro attraverso la vita donata di Gesù, è una “vita piena della sua gioia e della confidenza nel Padre”. Il frutto/grappolo di quella vite di cui noi siamo i tralci è dato dalla fecondità dell’amore e dell’amare che scorre in noi e tra noi, dal Padre attraverso Gesù. È questo il senso del mandato “andiate e/a portiate frutto” che dà anche al “che rimanga” un originale senso dinamico e non statico (cf 15,16b).
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