mercoledì 25 maggio 2022

“ESSERE CHIESA… PER FARE CHIESA” I - “SINODALITA’ …SENZA SINODO” II - “UN SINODOPER…LA SINODALITÀ” III – “UNA CHIESA SINODALE È UNA COMUNITÀ IN ASCOLTO IV - “UN COMANDAMENTO PER LA SINODALITÀ”

ESSERE CHIESAPER FARE CHIESA” 

 I - SINODALITA’ SENZA SINODO” 
II - “UN SINODOPERLA SINODALITÀ” 
III – “UNA CHIESA SINODALE È UNA COMUNITÀ IN ASCOLTO 
IV - “UN COMANDAMENTO PER LA SINODALITÀ” 
In modo un po’ frammentario ho già espresso su questo blog alcune considerazioni riguardo  al “percorso sinodale” che stiamo facendo nelle chiese italiane, sulla scia delle forti suggestioni di  papa Francesco per tutta la Chiesa cattolica. 
In un suo intervento all’Azione Cattolica ha introdotto un commento a margine: liberarci dai nostri  timori e dalle nostre paure sulla sinodalità e aprirci una strada praticabile. «In effetti, quello sinodale non è  tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare. E dobbiamo essere  precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la  sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci  sono nella società... È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali  che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è  sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose  diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi  condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è  molto importante» 
Nell’ascoltare il vangelo della V domenica di Pasqua/C (Giovanni 13,31…35) mi sono venute  alla mente alcune riflessioni sulla SINODALITA’ che vorrei condividere riguardo al fondamento  evangelico non tanto della sinodalità, già abbastanza attestata nello “stile” di Gesù stesso che  “cammina con” i suoi discepoli per le strade della Galilea, della Giudea e della Samaria (cf Matteo 
4,23; 9,35) ma del suo fondamento: la comunione trinitaria affermata da Gesù proprio  nell’evangelo di Giovanni e includente anche “i suoi”. Il culmine è sicuramente nel capitolo 17 dove  è proprio Gesù a chiedere che “siano una cosa solo in noi, come io e te [Padre] siamo uno” (vv. 11b.  22). 
Giovanni Crisostomo così si esprime: «Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme»  (Ekklesía gár systématos kaí synódou estìn ónoma, EX. IN PSALM. 149, 2; PG 55, 493). Questo mette in luce il duplice  aspetto della sinodalità, il “convenire” (anche in senso liturgico) e il “camminare” (più come atteggiamento  evangelizzante). Il primo mette in risalto il fondamento eucaristico, sorgente della communio; il secondo la  modalità evangelica e fraterna con cui essa si attua. 
Ma la vetta si raggiunge attraverso un percorso progressivo, pedagogico, che parte dalla  relazione e dalla sua modalità di attuazione: “perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e  io in loro” (v. 26b). 
È l’amore [agape] del Padre per Lui e per tutta l’umanità che spinge il Figlio a “camminare  con noi”, ad essere “la via” (cf Gv 14,6). 
Addirittura a far diventare l’agape un “comandamento”! 
Non intendiamolo però con un ordine o un’ingiunzione perentoria, piuttosto come  un’indicazione di percorso per diventare “una cosa sola” e perché “il mondo creda” (cf v. 21). L’amore manifestato dal Nazareno ci pone difronte all’altro non come ad un limite ma  “un’occasione di amore, di accoglienza e non di rigetto, di riconoscimento e non di negazione, di  ospitalità e non di ostilità” (COMUNITÀ DI BOSE).
Esso diventa un comandamento, non un ordine o un’ingiunzione, ma un modo di camminare  insieme [mandatum in latino; con un riferimento un po’ originale: cum andare] così ciò che è intra personale diventa relazionale e comunitario, ciò che reciprocamente unisce diviene forza di  evangelizzazione. 
Vorrei proporre qualche riflessione in merito. 
L’agàpe per l’evangelista Giovanni si rivela come il senso e il contenuto di tutta l’azione  salvifica del Padre verso l’umanità attraverso il Figlio, ed essa ora continua ad agire nell’amore  reciproco all’interno della comunità credente che cerca di vivere il precetto del Signore: “che vi  amiate gli uni gli altri” (15,12) e in questo modo continua a manifestarsi l’amore del Padre verso  tutti i suoi figli e figlie. 
Il reciproco dimorare costituisce il modo di “essere in Gesù” del credente e della comunità:  la “nuova alleanza” si basa su questa realtà ed è “vincolata” all’amore reciproco che Lui comanda.  L’amore comandato a noi è per Gesù l’amore ricevuto dal Padre come comando di amare noi da  amici fino a dare la vita per noi (cf vv. 9-10b.12.13-14). 
La legge costitutiva della comunità credente, l’amore reciproco, ha sempre come punto di  riferimento quello del servizio di Gesù stesso e non un sentimento vicendevole: è disponibilità a  dare la propria vita (cf 13,1.14). 
In 13,34-35 Gesù avrebbe già consegnato questo “comando”, con una formulazione identica  anche se più diretta e imperativa, che lo evidenzia come “nuovo”, da cui dipende la testimonianza  credibile da discepoli del Signore.  
Qui Gesù aggiunge questo comando come “il mio” (v. 12b). 
Credo che siano tre le affermazioni fondamentali alla comprensione di quanto il Signore  chieda ai suoi discepoli ed a noi. 
1. Anzitutto “mio”, di chi lo sta proponendo, ma che ola” la sua esistenza di Figlio nei  confronti del Padre e di noi. 
Poco prima, nei vv. 9-10, Egli descrive la sua esistenza di Figlio in quanto amato (in consonanza  con i sinottici all’immersione nel Giordano e nella trasfigurazione sul monte: Mc 1,11; 9,7b; Mt 3, 17; 17,5b;  Lc 3,22b; anche 3,35 e 17,23b.) e di conseguenza Egli ama noi nello stesso modo e dello stesso amore,  permettendoci di dimorare in esso: essere discepoli, scelti da Lui come amici, vuol dire essere amati  in modo permanente, vivere in pienezza è quindi dimorare il Lui nel suo amore
È possibile per noi, così limitati, fondare la nostra esistenza su questa realtà?  Gesù ce ne fa dono, nel consegnare la sua vita per noi; il suo è un amore incondizionato,  gratuito che pone solo una condizione per essere vissuto, quella sua stessa (cf v. 13). Il comando è “il suo” perché anzitutto Egli lo osserva nei confronti del Padre, non per  costrizione ma per adesione libera (cf 10,11) e perché nell’amare come è amato si realizza la sua  esistenza di Figlio. 
Diventa “nostro” non solo come precetto da osservare, anche fosse per gratitudine e  riconoscenza; non essendo noi servi, ma amici esso diventa una “logica relazionale” i cui limiti  sono soltanto nella nostra libera scelta. Scriveva Italo Calvino, al termine del suo romanzo “La  giornata di uno scrutatore”: “L’amore non ha confini se non quelli che noi gli diamo”, e l’amore di  Gesù sta nel dare la vita! Egli, da amico comunica a noi tutto di sé stesso, il che ci rende possibile  una nuova e vera conoscenza di Dio (1Giovanni). 
2. Qui sta anche il senso di “nuovo” (cf 13,34). 
Potremmo dire che non esisteva prima un simile comandamento? Non ve ne è traccia nella  Bibbia, anche se la cosiddetta “regola d’oro” gli si avvicina: “Fai agli altri quello che vorresti gli altri  facessero a te” (cf Mt 7,12). 
Mio e nuovo” non si possono separare, infatti la “novità” sta proprio nel fatto che è di Gesù,  suo nella proposta e nella modalità e nella misura.
Non è conseguenza etica di un comportamento nostro adeguato al suo, ma accoglienza del  suo amore in noi che ci porta a fare nostro ciò che è suo. In altre parole è come se Egli “in noi”  amasse gli altri come Lui ci ama. 
Questo è anche il senso del “come io” che dice il motivo, la causa, il paradigma e la finalità. Qual è stata l’esperienza di Giovanni e delle sue comunità per arrivare a porre un’altra  modalità e un’altra capacità, quella della “reciprocità”? 
Di sicuro, quello che può sembra frutto di un percorso intellettuale, in realtà è scaturito  dall’esperienza intensa e coinvolgente, anche se pur fragile, come deduciamo dalla sua prima  lettera (cf 1Gv 3,10.11.15-16.23-24a; 4,7-12.15-16). Ora questo sarebbe tutto da approfondire,  soprattutto quando ci viene detto che è il messaggio ricevuto “da principio” (v. 11; cf 16,4b; Gv 1,1)  e che “vedendo e amando il fratello, si vede e si ama Dio” (cf vv.19-21) e che addirittura “l’amore  reciproco tra noi rende visibile e conoscibile Dio che è amore”! (cf v. 12; cf Gv 1,18). 
3. Quest’ultima affermazione ci fa entrare nella terza dimensione che ha in sé l’amore  reciproco, nei confronti del mondo: l’umanità arriverà così finalmente a credere in Gesù (cf 14,31). Tutto il racconto evangelico di Giovanni, soprattutto la prima parte “il libro dei segni” nei  (capp. 2 – 12), ha quest’obbiettivo, ma lo vediamo presente fino al termine dei “discorsi della cena”,  dove in 17,21.23 Gesù parla dell’unità
Se l’unità tra i discepoli suscita l’adesione del mondo a Gesù come Inviato del Padre, il loro  “amore gli uni per gli altri” li faranno riconoscere da tutti come “suoi” (cf 13,35). Il compito dei discepoli e dei credenti è quello di “dare testimonianza nei confronti di Gesù”  (cf 15,27; 17,18) quale migliore testimonianza dell’amore fino alla fine, fino al nemico, che diventa  possibile e capace di suscitare reciprocità!  
Quale dono più grande di Dio agli esseri umani? L’agàpe
Ecco la “vita piena, feconda, vera/autentica, incorruttibile e indefettibile”: amare in modo e  nella misura tale “come” Gesù, capace di suscitare nell’altro una risposta libera e consapevole! La presentazione del comandamento dell’amore reciproco costituisce nella parte centrale  del capitolo 15 un’inclusione interessante: 
v. 12: “che vi amiate gli uni gli altri” 
v. 13: “dare la vita è l’amore più grande” 
v. 14: “voi siete miei amici se fate il mio comando” 
v. 15: “vi chiamo amici, non servi” 
v. 16: “io vi scelsi perché siate fecondi” 
v. 17: “che vi amiate gli uni gli altri” 
Al centro sta il rapporto di amicizia con Gesù (vv. 14-15) e quindi ribadisce che l’osservanza  del “suo” comandamento è una questione d’amore, non obbliga ma gratifica nel praticarlo: Lui ci  ama liberamente e l’amarci è la nostra libertà! 
In effetti l’atteggiamento usuale nei confronti di un comando è quello servile, anche nei  confronti della Torah era promessa “la felicità”, ma era comunque comunemente avvertita come  un “giogo” da portare (cf Deuteronomio 6,3; Mt 11,29-30; Galati 5,1). Qui, invece, chi comanda non  si separa creando distanza, piuttosto “si dona” unificando così l’intimo di chi lo esegue, sentendosi  unito agli altri. È il senso del comandare nel “cum andare”, andare insieme, (ma anche del  mandatum al missum) dono dell’unità. 
L’autenticità dell’amore sarà anzitutto attestata dal frutto della sua piena gioia, segno di una  vita feconda, pienamente vissuta e realizzata (cf v. 11); ulteriormente dal dono del Padre nella  preghiera (cf v. 16c). 
La consapevolezza nostra è di essere stati amati per primi e che “non siamo stati noi ad  amare…”, quindi l’autenticità e l’efficacia di questa esperienza d’amore vengono dall’essere un dono  ricevuto (cf 1Giovanni 4,7-10).
Perché esso “rimanga” e ci permetta di “rimanere” uniti come “tralci nella vite” non va  interrotta quella reciprocità da cui proviene e che si estende in misura universale a tutti, amati e  riconosciuti come amici, fratelli. 
La vita di discepoli e di credenti che credono nell’amore del Padre per loro attraverso la vita  donata di Gesù, è una “vita piena della sua gioia e della confidenza nel Padre”. Il frutto/grappolo di  quella vite di cui noi siamo i tralci è dato dalla fecondità dell’amore e dell’amare che scorre in noi e  tra noi, dal Padre attraverso Gesù. È questo il senso del mandato “andiate e/a portiate frutto” che  dà anche al “che rimanga” un originale senso dinamico e non statico (cf 15,16b).

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