venerdì 30 ottobre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 1 novembre 2020 (Tutti i Santi e Sante)

LE PAROLE… LA PAROLA” 

1 novembre 2020 (Tutti i Santi e Sante) 

Apocalisse 7,2-4.9-14 / Salmo 23 / 1Giovanni 3,1-3/ Matteo 5,12-12 




SANTITÀ 

«I santi e le sante di ogni tempo, che oggi celebriamo tutti insieme non sono esseri umani lontani, irraggiungibili.  Al contrario, sono persone che hanno vissuto con i piedi per terra;  hanno sperimentato la fatica quotidiana dell'esistenza  con i suoi successi e i suoi fallimenti,  trovando nel Signore la forza di rialzarsi sempre e proseguire il cammino. La santità è un traguardo che non si può conseguire soltanto con le proprie forze ma è il frutto della grazia di Dio e della nostra libera risposta ad essa.  Quindi la santità è dono e chiamata che non possiamo comperare o barattare,  ma accogliere, partecipando così alla stessa vita divina  mediante lo Spirito santo che abita in noi dal giorno del nostro Battesimo. Si tratta di maturare sempre più la consapevolezza  che siamo innestati in Cristo, come il tralcio è unito alla vite,  e pertanto possiamo e dobbiamo vivere con Lui e in Lui da figli di Dio.  Allora la santità è vivere in piena comunione con Dio,  già adesso, durante il pellegrinaggio terreno». 

FRANCESCO, 1 novembre 2019 



Quest’anno celebriamo la “SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI E SANTE”  nella XXXI Domenica del T.O/A nel quale leggiamo e ascoltiamo il  racconto evangelico di Matteo, e in particolare avremmo ascoltato  dal capitolo 23 i vv. 1-12. 
La liturgia ci propone invece Mt 5,1-12 che già abbiamo  ascoltato nella IV domenica di quest’anno (2 febbraio 2020),  facendoci fare un salto al momento “iniziale” dell’annuncio  messianico del Nazareno: la proclamazione della beatitudine di  appartenere al Regno. 
È un passaggio provvidenziale perché, dopo faticose e  drammatiche controversie dei capitoli 21 e 22, nelle precedenti  domeniche, possiamo ritornare, e non soltanto con la memoria, alla motivazione fondamentale delle opposizioni da parte delle  autorità religiose e politiche alla predicazione messianica di Gesù. Cosa costituiscono infatti le “Beatitudini”, che Matteo pone in  un’ambientazione sinaitica all’inizio del lungo “Discorso del  monte” (cf 5,1- 7,29) se non il ribaltamento dell’impostazione  teologica israelitica, a tal punto che “la folla stessa era  meravigliata per i suoi insegnamenti che erano così diverso dai suoi  maestri della Legge mosaica, poiché insegnava con piena  autorità”?! (7,28-29). 
Mosè per primo, autentico ermeneuta della Torah, nella  versione di Deuteronomio promette ripetutamente al popolo in  ascolto la “beatitudine” a condizione che tutti i precetti in essa  contenuti siano “praticati e ascoltati” (cf 5,1.32; 6,24), quindi al  termine di un percorso obbedienziale, spesso anche drammatico. 
In Matteo, invece, essa è proclamata da subito, fin dall’inizio:  il Vangelo di Gesù ci fa partire da dove gli altri arrivano! Questo è rivoluzionario anche rispetto al conseguimento della  “santità” che festeggiamo oggi: sapere di essere realmente figli  amati dal Padre e avere speranza in Lui anche se il mondo sembra  non riconoscerci come tali, e se spesso nemmeno noi lo abbiamo  chiaro (cf 1Giovanni 3,1-3 – II lettura). 
Gesù ha iniziato la sua missione tra la gente della sua regione,  la Galilea, annunciando che Dio è definitivamente presente in  mezzo a noi [il regno di Dio] e questa è una nuova notizia, bella e  buona per tutti [l’evangelo], poiché finalmente dà la possibilità di  cambiare il modo di vedere la propria esistenza [la conversione] e  di comportarci con Dio e con gli altri [la giustizia]. 
Il cambiamento più importante, e anche più difficile, è quello  di non pensare e di non vivere più la religione come un dovere, ma  come un’esperienza e una promessa di felicità, di ben/essere e di  buon/vivere con Dio e con gli altri, già adesso e per sempre. 
E proprio Gesù che realizza ogni promessa di felicità e la attua  prima di tutto Lui, con il suo modo di vivere da Figlio del Padre,  mandato a noi per farci lo stesso dono, e infine la vuole  condividere e annunciare ai suoi primi discepoli, a noi e a tutti. Questo è anche il dono della santità che Egli fa a noi. Di commenti se ne trovano molti, e anche autorevoli, in un  percorso di catechesi con i più piccoli, ma anche con i loro genitori,  ho provato a “tradurre” le 8 beatitudini di Matteo. Credo che possa aiutare anche noi: 
Beati coloro che si fidano solo di Dio 
perché Lui è già tutto per loro. 
Beati coloro che soffrono molto 
perché sarà Dio a consolarli. 
Beati coloro che non sono prepotenti 
perché Dio donerà a loro un mondo migliore. 
Beati coloro che desiderano  
e cercano ciò che vuole Dio per loro 
perché Lui per primo realizzerà i loro desideri. 
Beati coloro che provano amore e tenerezza per gli altri perché Dio avrà a cuore la loro miseria. 
Beati coloro che sono semplici e sinceri  
perché Dio si farà conoscere a loro. 
Beati coloro che realizzano la pace 
perché Dio li considererà suoi figli. 
Beati coloro che sono trattati male  
per aver compiuto ciò che Dio vuole 
perché Lui è già tutto per loro. 
La nostra gioia più grande dovrebbe essere quella di far parte  di quella “moltitudine immensa e che nessuno poteva, di ogni  nazione, tribù, popolo e lingua… che hanno attraversato la grande  tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole bianche nel  sangue dell’Agnello” (Apocalisse 7,9.14 – I lettura). 
Roberto

venerdì 23 ottobre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 25 ottobre 2020

 LE PAROLE… LA PAROLA” 

25 ottobre 2020 (Domenica XXX TO/A) 

Esodo 22,21-27 / Salmo 17 / 1Tessalonicesi 1,5-10 / Matteo 22,34-40 




PROSSIMO 

La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto,  senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza.  Il samaritano è stato colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito.  La conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e,  davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque.  

Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare,  

ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri”.

FRANCESCO, Fratelli tutti 81 

I farisei, venuti a sapere che Gesù aveva chiuso la bocca ai  sadducei si radunarono insieme, e uno di loro, un esperto della  Legge mosaica, lo interrogò per metterlo alla prova” (Matteo 22,34-35). 

Siamo alla terza discussione polemica tra il Nazareno e le  autorità religiose giudaiche, nel Tempio prima della Pasqua, dopo  quella con la setta dei sadducei sulla risurrezione dopo la morte (cf  vv. 22-33). 

Questo ci fa capire come la sua fine tragica non sia un evento  sbucato dal nulla, ma preparato accuratamente, anche attraverso  una serie di tranelli che gli sono stati tesi al fine di coglierlo in  errore ed avere elementi sufficienti e probanti per denunciarlo,  arrestarlo e farlo condannare a morte. 

Inoltre, le questioni sollevate in queste controversie non sono  di secondaria importanza ma costituiscono il punto nevralgico  delle varie categorie di interlocutori, e nello stesso tempo gli scogli  che i primi cristiani delle comunità palestinesi hanno dovuto  affrontare nei confronti della religiosità giudaica. 

Ora siamo davanti al cruccio di molti esperti della Torah, che  dovevano anche insegnarla al popolo: “il (più) grande comandamento” (v. 36) in una giungla di centinaia di precetti da  osservare, a volte anche in modo maniacale e ossessivo, che ne  spezzavano la sua unitarietà auspicata dagli stessi profeti (cf  Michea 6,8; Siracide 12,13). 

La questione posta così non era solo di grande utilità per gli  addetti ai lavori, ma anche per il giusto israelita che voleva essere  coerente con la Legge e suo fedele osservante. Nello stesso tempo  evidenzia molto bene quale sia l’assoluta novità dell’evangelo  messianico di Gesù e ciò che per i primi cristiani costituiva fin  dall’inizio il loro carattere distintivo. 

Lo si coglie già nel racconto di Marco 12,28-34, dove il  contesto polemico non è così acceso e non è messo in evidenza  che il comandamento: “Ama il tuo prossimo come te stesso” è  secondo ad “Ama il Signore, Dio tuo” con tutto te stesso, ma è  ugualmente importante, “similare” (cf vv. 37-39). 

In Luca 10,25-28 il tutto poi viene unificato in un solo  comandamento e radicalizzato nel “farsi prossimo”, attraverso la  parabola del samaritano (cf vv. 29-37)1

Assistiamo dunque ad un processo che ha accompagnato le  prime generazioni cristiane: da due precetti messi sullo stesso  piano, alla loro uguaglianza, fino alla loro fusione che sfocia poi nel  paradosso di amare il malcapitato per amare veramente il Signore! 

Non si tratta solo di un’opera di semplificazione che può  rendere l’osservanza della Torah più agevole, ma un vero e proprio  processo rivoluzionario di natura “copernicana”: da una religiosità  che dà il primato al rapporto con Dio da cui discenderebbe quello  con il prossimo, alla loro uguaglianza, fino al primo subordinato  all’adempimento del secondo! 

Il prossimo come “via” per amare autenticamente il Signore e  l’amore verso di lui come verifica di ogni atto di culto. 

1 A proposito la pregnante riflessione di MARTIN LUTHER KING in La forza di amare, oltre a quella attuale  di FRANCESCO in Fratelli tutti, nn. 56-86; 101-102.

 

“All’umana preoccupazione di stabilire una graduatoria  di doveri Gesù dà una risposta che fa vacillare ogni logica: non  c’è un primo o più grande. Il senso di tutto è l’Amore. In questo modo Gesù non distrugge ma compie la Torah (cf  5,17). 

Il senso di tutte le scelte, di qualsiasi responsabilità di cui  siamo investiti, di ogni compito da assumerci, è l’Amore. L’Amore è il valore che giudica e relativizza ogni scelta,  dichiarandola incompiuta e contemporaneamente gravida di  compiutezza e di eternità. 

Gesù, nel dare questa risposta, sintesi della sua Parola accolta “con la gioia dello Spirito” (cf 1Tessalonicesi – II  lettura), non fa altro che consegnare sé stesso a noi e a tutti,  la propria esistenza di Figlio come manifestazione del Regno  del Padre, nel dare il comandamento più grande, il suo, il  nuovo (cf Giovanni 15,7-13.17; 12,34-35). 

Annunzia la sua speranza che la propria vita, la propria  missione di condurre a compimento la storia di alleanza tra  Dio e il suo popolo, non andrà a vuoto, come pure l’anelito al  diritto ed alla giustizia da parte dei più deboli e indifesi (cf  Esodo – I lettura).  

Nell’amore tutto è compiuto (cf Giovanni 19,30)2”.

Roberto 

2 Non possiamo tralasciare quanto è stato recepito nella consapevolezza e nell’esperienza delle  prime comunità cristiane al riguardo, di cui abbiamo testimonianza sia nelle lettere di Paolo (Romani  12,9-21; 1Corinzi 12,31- 13,13) che in quelle di Giovanni (1Gv 3,14-25; 5,1-3). Ma su tutto questo è  già stato scritto molto.



venerdì 16 ottobre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 18 ottobre 2020

 LE PAROLE… LA PAROLA” 

18 ottobre 2020 (Domenica XXIX TO/A) 

Isaia 45,1.4-6 / Salmo 95 / 1Tessalonicesi 1,1-5b / Matteo 22,15-21 




FRATERNITÀ 

Alcuni Paesi forti dal punto di vista economico  

vengono presentati come modelli culturali  

per i Paesi poco sviluppati, 

invece di fare in modo che ognuno cresca  

con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare  a partire dai valori della propria cultura.  

(…si) induce a copiare e comprare piuttosto che creare,  

dà luogo a un’autostima nazionale molto bassa.  

Nei settori benestanti di molti Paesi poveri, 

e a volte in coloro che sono riusciti a uscire dalla povertà,  

si riscontra l’incapacità di accettare caratteristiche e processi propri,  cadendo in un disprezzo della propria identità culturale,  come se fosse la causa di tutti i mali”. 

FRANCESCO, Fratelli tutti 51 

Quando pensiamo alla fine tragica della missione di Gesù, il  Nazareno, ci soffermiamo quasi esclusivamente sulla sua  sofferenza fisica avvenuta negli ultimi giorni delle celebrazioni  pasquali giudaiche e culminata nella sua morte in croce.  

Eppure i racconti evangelici, in particolare quello di Matteo  che stiamo ascoltando e leggendo quest’anno, dedicano molto  spazio alle opposizioni delle autorità religiose e politiche dei Giudei nel Tempio, mentre gli infermi gli si avvicinano e i bambini gli fanno  festa (21,14-15).  

Dopo il rifiuto della sua autorità messianica (vv. 23-27), Gesù  interpella i suoi interlocutori con tre parabole che illustrano il dono  gratuito della salvezza offerto a tutti coloro lo accolgono con  disponibilità e responsabilità (21,28-22,14).  

Ora, un gruppo alla volta, smascherati nella loro ipocrisia e  inescusabile rifiuto, “i farisei, si ritirano e tengono consiglio per  cercare di metterlo in trappola con le sue stesse paroleinsieme agli erodiani (22,15; cf 27,1). Anche i nemici si coalizzano quando  c’è da confutare la verità scomoda, tirando in ballo il loro comune  nemico, l’imperatore romano, che imponeva tasse estorcendole  tramite i pubblicani (cf vv.16-17). 

Gesù, rispondendo alla loro provocazione li rimette però  davanti al loro compito di “dare a Dio ciò che è Dio” (v. 21). Questa è anche la vocazione originaria di ogni essere umano,  la Sua immagine è impressa in noi da sempre (cf Genesi 1,26-27) e  noi non solo la misconosciamo, ma spesso la barattiamo pagando  il tributo a chi ci svuota della nostra dignità. 

La proverbiale risposta di Gesù non ha lo scopo di sancire la  separazione tra spirituale e temporale, tra culto e tributi, di  opporre politica e religione, ma di spingere all’estremo il senso  della nostra appartenenza a Dio: siamo noi che Gesù vuole  restituirgli interamente, senza compromessi. 

Gesù stesso, il Figlio è l’autentica immagine del Padre e noi  chiamati a riconoscere solo in Lui la vera signoria divina  sull’esistenza e sulla storia, sapendo discernere ogni  fraintendimento tra salvezza di Dio e potere mondano1 (cf Isaia - I  lettura). 

1 Questo è il tragico equivoco che ha condotto Israele, a partire dal periodo monarchico:  fraintendere l’elezione e l’alleanza con il destino di un piccolo popolo tra i potenti, l’equivoco di un  sogno teocratico.





Anche i suoi discepoli, e quindi noi credenti, non possiamo cedere alla tentazione di porre in concorrenza con qualsiasi potere  umano il progetto divino sull’umanità intera: tutto è sottoposto  all’annuncio della libertà e della responsabilità personale e sociale. 

I potenti amano raffigurarsi sul denaro il cui valore va oltre  quello economico ed esprime l’asservimento alienante di coloro  che sono costretti ad usarlo, senza scelta alternativa. 

La Parola ci provoca a discernere noi stessi ogni situazione  sociale ed economica, senza rimandare ad un giudizio divino; riconoscendo che l’annuncio evangelico vuole liberarci per saper 

donare il nostro amore ad un Padre che infinitamente ci dona il  suo senza chiederci nulla in cambio (Paolo ai Tessalonicesi – II  lettura)2, diversamente da ogni altro Cesare. 

I farisei si ritirano in buon ordine, così adesso la scena sarà  tutta dei sadducei (cf vv. 22-23) e anche noi dovremo, con Gesù,  affrontare un’altra sfida che sarà superata solo attraverso la morte  e risurrezione. 

Roberto 

2Il saluto e il ringraziamento dell’apostolo Paolo ai cristiani di questa giovane comunità (primo  scritto cristiano) ha tutto il sapore della novità evangelica dell’annuncio da poco ricevuto “per mezzo  della Parola, la potenza dello Spirito e profonda convinzione” e del loro impegno operoso, faticoso e  costante. Possiamo immaginare anche le loro difficoltà nel relazionarsi con la loro società ed il  potere politico, ci accomuna con loro “fratelli amati da Dio, scelti da Lui”.



venerdì 9 ottobre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 11 ottobre 2020

 LE PAROLE… LA PAROLA” 

11 ottobre 2020 (Domenica XXVIII TO/A) 

Isaia 25,6-10 / Salmo 22 / Filippesi 4,12…20 / Matteo 22,1-14 




FESTEGGIARE 

“La comunità evangelizzatrice è gioiosa  

sa sempre “festeggiare”.  

Celebra e festeggia ogni piccola vittoria,  

ogni passo avanti nell’evangelizzazione. 

L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia 

in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene.  La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia,  la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice  e fonte di un rinnovato impulso a donarsi”. 

FRANCESCO, La gioia del Vangelo 24 

Finalmente, dopo una parabola drammatica e con esito  tragico (cf 21,44-45), siamo invitati ad una “festa di nozze”!  Ma aspettiamo di ascoltare come procede per renderci conto che  non tutto fila liscio e alla fine non tutti “vissero felici e contenti”. 

Anzitutto anche questa è rivolta “ai capi dei sacerdoti e ai  farisei” e già questo ci fa capire che siamo in un contesto polemico di opposizione nei confronti di Gesù. 

Come la vigna, la vite, il vino nella bibbia si riferiscono anche  al popolo ed al suo rapporto con il Signore, oltre che hai suoi doni,  anche le nozze sono espressione di quale patto nuziale che  l’alleanza tra loro, la loro reciproca felicità. 

L’elemento di novità ora è la presenza del figlio del re di cui si  celebrano le nozze; ma con chi? 

Il primo carattere destabilizzante del racconto è la reazione  degli invitati, che non solo incuranti si rifiutano di partecipare  (nonostante che sia stato anche illustrato il menù di chiaro sapore  messianico: cf Isaia 25,6 – I lettura), ma addirittura “prendono,  insultano, uccidono” gli emissari (cf vv. 3-6).

 

Il secondo è l’indignazione omicida del re che ha dimensioni a  dir poco sproporzionate, come anche in 21,41. 

Il terzo sono i nuovi invitati ritenuti più degni, ma non si  capisce secondo quali criteri, dato che si tratta di “buoni e cattivi,  ai crocicchi delle strade, tutti quelli che troverete…” (cf vv. 8-10),  quindi si presume gli “emarginati” come i pagani e i pubblici  peccatori, il che ci collega con 21,31. 

Per non parlare dell’ostinazione da parte del re a invitare  gente, che non si rassegna a veder rimanere vuota la stanza  nuziale! 

L’ultimo, positivo, è che alla fine “la sala delle nozze si riempì  di commensali”. 

Un modo di procedere abbastanza insolito, con colpi di scena  ed esiti inspiegabili: perché rifiutare un invito a nozze? Perché poi  reagire in modo così violento da ambo le parti?  

E poi… non è finita: se il secondo invito e rivolto a tutti, senza  discriminazione, perché chi non è munito di “abito nuziale” è  cacciato fuori in quel modo così crudele dallo stesso re che giunge  nel bel mezzo della festa? (cf vv. 11-13). Nemmeno lo sprovveduto  ha una risposta adeguata, tace soltanto. 

Si tratta di un’altra parabola collegata qui con l’intreccio delle altre precedenti? 

Non ci convince nemmeno la conclusione del v. 14 che ci  ricorda il detto degli “ultimi che saranno primi” (19,30), anche se  la dialettica tra “chiamati” e “scelti” non dipende dai gruppi di  appartenenza ma dal tipo di adesione all’invito. 

Si tratta ancora di una parabola sull’intera storia della  salvezza e si capisce che essa appartiene però alla serie di  polemiche che poi esploderanno nell’aperta opposizione a Gesù  delle autorità politiche e religiose (cf 22,15-23,29). Il loro ambiente  originario è poi diventato quello della stessa comunità di  Gerusalemme e del suo difficile rapporto con il resto del popolo,  con la sua storia di salvezza: i discepoli e i primi cristiani hanno visto realizzarsi nella distruzione della Città santa nel 70 d. C.  l’avverarsi di tutte le profezie. 

L’attualità del racconto evangelico si rivela nella sua  proclamazione oggi, a noi comunità radunata per l’ascolto e per  celebrare “la festa di nozze dell’Agnello”. Nessuno di noi ha i  requisiti richiesti, ma sia tutti invitati e abbiamo risposto; possiamo  chiederci se indossiamo “l’abito nuziale”, che per me corrisponde  alla consapevolezza di essere noi la sposa che il “Figlio del re” vuole  sposare! 

Ancora una volta il vangelo sconvolge i nostri criteri e le  nostre abitudini e ci chiede soltanto di lasciarci amare, così come  siamo. Nella nostra povertà, come nella nostra prosperità, con  Paolo siamo convinti che “Tutto posso in colui che mi dà la forza”  (ai cristiani di Filippi 4,13), anche grazie al supporto della comunità:  insieme possiamo sperimentare l’incalcolabile potenza dell’amore  di Dio (cf Romani 2,4; 9,23; 11,33). 

Un amore misericordioso verso tutti, ma anche tenero con  ciascuno: “asciugherà le lacrime su ogni volto” perché “eliminerà  la morte per sempre” (Isaia 25,8). 

Così “Gesù ha consegnato sé stesso si suoi discepoli, come  ricordo perenne e vivo, come speranza e anticipazione della  venuta definita del Regno in una cena… in continuità con la  prima alleanza, ma nello stesso tempo dava loro un  compimento inatteso: in base al modo stesso con cui viene  accolto. Il Regno è un già per tutti i poveri, gli indegni di  parteciparvi… con lo stupore, la gratitudine, la gioia dei senza diritti a farne parte. 

L’Eucaristia che celebriamo ci giudica ancora oggi in base al  nostro modo di parteciparvi” e solo noi possiamo correre il rischio di autoescluderci dalla festa! Non siamo solo invitati,  ma anche sottoposti al discernimento critico dell’evangelo di  oggi. 

Roberto


Vicina è la PAROLA 14 aprile 2024: III Domenica di Pasqua - Guardare… toccare… mangiare

Vicina è la PAROLA   14 aprile 2024: III Domenica di Pasqua Atti 3,13…19 / Salmo 4 1Giovanni 2,1-5 Luca 24,35-48 Guardare… toccare… mangia...