venerdì 27 novembre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 29 novembre 2020



 

LE PAROLE… LA PAROLA” 

29 novembre 2020 (Domenica I Avvento/B

Isaia 63,16b…19; 64,2-7 / Salmo 79 / 1Corinzi 1,3-9 


Marco
13,33-37 

Desiderio 

Come avviene questo trapianto di cuore,  

dal cuore vecchio al cuore nuovo?  

Attraverso il dono di desideri nuovi (cf Rm 8,6) 

che vengono seminati in noi  

e portati a compimento da Gesù (cf Mt 5,17-48). 

Infatti, in un’esistenza grata, libera, autentica, benedicente, adulta,  custode e amante della vita, fedele, generosa e sincera, noi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo davanti a Cristo. E così lo Spirito feconda il nostro cuore  

mettendo in esso i desideri che sono un dono suo, 

i desideri dello Spirito.  

Desiderare secondo lo Spirito: al ritmo dello Spirito,  

desiderare con la musica dello Spirito”. 

FRANCESCO, novembre 2018 

Vivere con la consapevolezza che il Signore risorto è presente  tra noi non è mai un’esperienza scontata. 

Abbiamo sempre bisogno di desiderarlo e di cercarlo, di  invocarne la presenza, di porre le condizioni perché sia autentica e  non una nostra pretesa o immaginazione. 

Ci succede come tante altre realtà della nostra vita di cui  siamo certi, perché tante volte provate, ma mai pienamente sicuri  come la fiducia, l’amicizia, l’amore. 

Un misto di insoddisfazione e di attesa che ci sia dato qualcosa  di più, di meglio, di nuovo… A volte rimaniamo in stand by, quasi  sospesi, oppure ansiosi come se dovessimo scongiurare  l’indesiderato. 

Ma sul più bello ci sorprende che proprio l’isperato accada, lo  stupore che sia qui, ora magari mentre noi eravamo distratti. 

Come chi sta alla porta e deve stare attento, sveglio perché in  qualsiasi momento, all’improvviso, qualcuno può suonare per  entrare: le ore sono certe ma non il suo arrivo (Marco 13,33-37 – Vangelo di oggi). 

Mentre nell’ambiente giudaico l’attesa messianica era ormai  alienante, Gesù risveglia nei suoi il desiderio dell’incontro. Le prime comunità cristiane, pur così giovani e fresche,  potevano essere esposte all’abitudine, alla ripetitività, scadendo  nell’obsoleto e nella mediocrità. Era necessario risvegliare l’attesa  del Signore, la vigilanza perché nel nostro oggi Egli viene e ciò che  più desideriamo con Lui accade, l’inimmaginabile. Le parole di Gesù mettono in luce “una situazione di fiducia  mal riposta, con la quale reagisce (Mc 11,12-14 e 20-21; 12,1-12;  13,1-8; 21-33) e il gesto della vedova, che versa nel tesoro del  Tempio tutta la sua sussistenza, lo salva in quanto luogo delle  manifestazioni di Dio nostro Padre (cf 12,38-44)” (STEFANO ROSSOCelebriamo l’Avvento. 1996, p. 23). 

Lo ricorda Paolo nel suo ringraziamento al Padre per la  comunità di Corinto: ricca di doni, come la predicazione e la sua  conoscenza; stabilmente fondata in Cristo; eppure sempre in  attesa che Egli si manifesti, e intanto li rende saldi fino alla fine,  finché Egli compirà le sue promesse (1Corinzi 1,3-9 – II lettura). 

Basta infatti continuare la lettura di questa lettera da far sembrare  ironico l’inizio, per così tanti problemi e conflitti che denuncia. Le attese di tutta l’umanità non saranno deluse e quelle di  oggi non sono meno pressanti di altre epoche: che il vaccino anti  Covid arrivi il prima possibile, che riaprano i bar, che si possa  andare a sciare o a trovare i propri famigliari lontani… Ma anche così nessuno ci assicura che accada quanto  aspettato, mentre magari invece si realizza l’inatteso. Allora forse  capiamo che non basta attendere, e che è necessario capire il  valore e il senso di ciò che vorremmo si realizzasse; tenere viva  l’attesa non è un modo di sopravvivere ma di continuare a sperare  insieme, tutti insieme! (Mc 13,37). 

Tu compivi cose che non attendevamo”, prega Isaia, e vai  incontro a chi pratica con gioia la tua volontà e cammina sulle tue  vie” (cf 64,2-4 - I lettura) e si stupisce: “perché tu ci lasci vagare  lontano? Siamo avvizziti come foglie portate via dal vento” (63,17;  64,5). 

Cosa può arginare il malessere dei nostri stati d’animo, del sentirci in balìa delle onde, zattere disancorate? 

La constatazione di essere “tutti nella stessa barca”, ma non  in un barcone alla deriva. 

La certezza che “Tu sei nostro padre; noi argilla e tu colui che  ci plasma” (63,16; 64,7). 

“UOMINI DI DESIDERIO: VIVERE

Il desiderio, a livello dell’essere è esigenza iscritta, diritto  nativo, richiesta profonda di quanto conduce l’essere umano  alla soglia di un’esistenza vera o almeno sufficientemente  umana… 

In questa condizione d’intrinseca precarietà e di insidia  esterna, il desiderio di essere si sbriciola nei desideri, diventa  un formicolare di richieste, un disordinato spettacolo di  esigenze gridate. 

Per questa umanità… non può esserci avvento di Dio,  perché verso di Lui non si accampano diritti né si gioca ai  desideri facili…;  

perché di Lui nulla è appropriabile e tutto è dono…;  perché la sua è una manifestazione che si celebra nella pace  degli occhi e del cuore… che vedono la fiamma delle cose e  della storia, non torturandola, ma amandola con passione” (CESARE MASSA, I giorni ardenti. 2002, pp. 15-22). 

Roberto



venerdì 20 novembre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 22 novembre 2020

 LE PAROLE… LA PAROLA” 

22 novembre 2020 (Cristo Re e Signore dell’universo

Ezechiele 34,11-12.15-17 / Salmo 22 / 1Corinzi 15,20-26.28


Matteo
25,31-46 

Piccoli e Fratelli 

I più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci:  hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore.  

Sì, essi sono nostri fratelli e sorelle 

come tali dobbiamo amarli e trattarli.  

Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa,  la nostra stessa fraternità cristiana riprende vita. 

I cristiani, infatti, vanno incontro ai poveri e deboli  

non per obbedire ad un programma ideologico,  

ma perché la parola e l’esempio del Signore  

ci dicono che tutti siamo fratelli.  

Questo è il principio dell’amore di Dio  

e di ogni giustizia fra gli esseri umani”. 

FRANCESCO, 18.02.2015 

Siamo giunti alla “fine” di questa sezione del lungo racconto  evangelico di Matteo e in particolare del suo insegnamento  messianico che abbiamo visto così tanto contrastato dalle autorità  giudaiche. Soprattutto è “il fine” verso cui tende tutto il suo  ministero (cf 26,1-5) e, come spesso succede, è proprio la meta, la  conclusione, che dà senso a tutto il percorso ed al suo inizio (cf  1Corinzi 15,20ss. – II lettura). 

La famosa scena parabolica che viene proclamata in questa  domenica, non ci rappresenta tanto “la fine del mondo”, più volte  profetizzata nei capitoli precedenti con immagini altrettanto  suggestive (cf 10,23; 13,40-43.49-50; 16,27-28; 19,28; 24,1- 25,30), e  nemmeno la rappresentazione della “regalità” che nell’odierna  liturgia celebriamo a conclusione dell’anno liturgico (cf  25,34.40.45). 

Siamo all’apice del compimento di tutta la Torah (cf 5,17-20), che coincide con la piena e sorprendente manifestazione del regno  di Dio inaugurato dal Nazareno, cioè del volto stesso di Dio e del  modo nuovo di potersi relazionare con Lui. 

Non è mia intenzione entrare nei dettagli per spiegare questa  parabola, ma fornire soltanto alcune linee ermeneutiche per farne  cogliere tutta la sua profondità e novità a cui l’evangelista cerca  continuamente di aprire la comprensione dei discepoli e dei suoi  uditori (cf 9,17). 

Anzitutto, nel solco della più genuina tradizione biblica, si  tratta di “un re pastore” il cui compito è anche quello di  “discernere” sia per condurre meglio che per tutelare le diverse  razze nella promiscuità (cf Ezechiele 34,17 – I lettura). Ma questa  è solo un’immagine utilizzata, come quella del “giudice-re”, perché  subito si capisce che si tratta di ben altro: una convocazione  universale di tutti i popoli del pianeta. 

È subito chiaro lo scopo: far entrare nel regno, non solo  annunciato da Gesù, ma addirittura predisposto all’inizio del piano  salvifico del Padre, il senso della creazione: la comunione con Lui. 

Sbalordisce che questo ingresso nel regno venga “meritato”  dall’essersi comportati nei confronti degli altri semplicemente  come “esseri umani”, trattandoli come propri simili, specie nelle  loro situazioni di disagio o di difficoltà.  

Pertanto non si fa cenno a nessuna opera di carattere  religioso o cultuale che costituiva “la giustizia” predicata nel  giudaismo e contro cui Gesù ha proclamato un superiore e nuovo  modo di compiere la volontà di Dio (cf 5,20). 

Qui è veramente superato ogni limite e confine, così si verifica  l’unità e l’uguaglianza dei due precetti dell’amore verso Dio e verso  il prossimo (cf 22,34-40): “tutto quello che avete fatto ad uno solo  di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (cf 25,40).

Viene inoltre in evidenza il primato dei piccoli, già  riconosciuto nel “discorso alla comunità” (cf 18,1-10), in una  dimensione nuova: la fraternità (cf 12,49-50). 

Ad una comunità “smarrita” per la distruzione del Santuario  (nel 70 d.C. da parte delle truppe romane) e la perdita di un “centro  cultuale”, ora il fratello più piccolo in mezzo alla comunità (cf 18,2)  diventa il luogo di incontro con Dio attraverso la presenza del  Risorto (cf 18,20) riconoscibile soltanto, altrimenti misconosciuto,  nell’incontro con l’umanità debole e carente di ogni fratello. 

In questa prospettiva la rivoluzione evangelica inaugurata dal  Messia si compie, ma non esaurisce il continuo bisogno di  “cambiamento di mentalità” per accogliere il regno da Lui  inaugurato (cf 4,17) e riconoscerlo con stupore dove nemmeno  pensavamo fosse possibile incontrarlo, vale a dire nei fratelli  umiliati, perseguitati, rifiutati come Lui. 

“Il giudizio annunziato dal vangelo si va già realizzando  nell’oggi; non solo nel senso che sull’agire quotidiano si  eserciterà il giudizio ultimo, ma anche nel senso che già  adesso, in ogni avvenimento di amore o di chiusura tra gli  esseri umani, (vedi l’alternarsi di “allora” e “quando” e l’uso  dei verbo all’aoristo), si manifesta la signoria di Cristo, la sua  solidarietà con gli ultimi, la sua vittoria su tutto ciò che separa  ed estrania”. 

C’è altra signoria più visibile che possa affermarsi alle nostre  pretese di mondana onnipotenza? 

C’è altra unificazione più efficace di ciò che era stato anche  violentemente separato tra Dio e l’essere umano? Dove l’umano è anche spezzato in sé e la morte diventa per  eccellenza “il nemico”; ma è proprio attraverso di essa che Lui dà  la vita per gli altri e ricostruisce l’assoluto e nuovo, totale e  definitivo, rapporto tra noi e col Padre: “Dio, tutto in tutti” (cf II  lettura).

Nell’Eucaristia, celebrata e vissuta, siamo già “benedetti nel  regno del Padre”, resi partecipi al suo banchetto, insieme con tutti  coloro che abbiamo sinceramente amato e servito (cf v. 44b). 

Roberto


sabato 14 novembre 2020

“LE PAROLE… LA PAROLA” 15 novembre 2020

(Domenica XXXIII TO/A) 

Proverbi 31,10…31 / Salmo 127 / 1Tessalonicesi 5,1-6 /


Matteo
25,14-30 

RISCHIARE 

Il pericolo, il nostro rischio,  

è di comportarci come il servo malvagio… 

non fare nulla di male non basta 

Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, ma è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni. Colui che aggiunge talenti nuovi 

ha la stessa mentalità di Dio 

rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri,  

non accetta di lasciare tutto com'è.  

Solo una cosa tralascia: il proprio utile”. 

FRANCESCO, 19.11.2017 

Il Signore verrà come un ladro di notte(1Tessalonicesi 5,2 – II  lettura).  

È un’immagine ricorrente anche nei racconti evangelici (cf Mt 24,23; Lc 12,39), anche se non tanto piacevole, magari preferiamo  quella dello “sposo che faceva tardi per le nozze” (Mt 25, 5 – Vangelo di domenica scorsa) o quella del “padrone che parte per  

un lungo viaggio” (vv. 14ss. di oggi) ma realtà non cambia. Fin dai primi giorni dopo la risurrezione del Nazareno, si era  diffusa tra i cristiani la consapevolezza che il Signore si sarebbe  presto manifestato e avrebbe “concluso la storia”. Le stesse lettere  alla comunità di Tessalonica (Salonicco), i primi scritti cristiani del  N.T., sono intrise di questa attesa. Lo testimoniano sia i racconti  evangelici nella loro sezione “escatologica” sia il rapporto che i  discepoli di Gesù instaurano con i beni materiali, le loro proprietà, al punto di “vendere tutto, consegnarlo agli Apostoli e distribuirlo  a ciascuno per le proprie necessità” (cf Atti degli Apostoli 4,34-37;  5,1-11).


Sapere che c’è un compimento finale dell’opera iniziata dal  Nazareno durante la sua esistenza terrena, di cui la sua  risurrezione ne è l’inaugurazione; constatare il prolungarsi  dell’attesa per questa “venuta gloriosa” hanno via via cambiato  l’atteggiamento dei cristiani, portandoli a valorizzare “l’oggi” del  Signore, come ben evidenziato dal racconto evangelico di Luca

Anche la liturgia, che nei primi secoli si andava piano piano  strutturando, ce ne dà un’ulteriore conferma. Per questo la “Veglia  pasquale” si prolungava fino al mattino: nella celebrazione  eucaristica il Risorto “viene” sacramentalmente tra i suoi come il  sole del mattino, di un giorno senza tramonto che abbraccia tutto  l’arco della nostra esistenza umana. 

Nei secoli successivi (dal IV al VI) si formerà addirittura un  “tempo liturgico” particolare a tenere vivo quest’atteggiamento di  “vigilare nell’attesa del ritorno glorioso del Signore”: il tempo di  Avvento. 

Nel Medioevo, date anche le drammatiche vicende che  colpiranno la società europea, non mancheranno le derive  “apocalittiche” e catastrofistiche anche nella spiritualità cristiana,  con notevoli ricadute sociali e culturali. 

Già Paolo lo sottolineava: “E quando la gente dirà: C’è pace e  sicurezza” allora d’improvviso la rovina li colpirà” (1Ts 5,3a; cf Mt  24,4ss. con paralleli in Mc 13,3ss. e Lc 21,7ss.). 

Sciagure preannunciate, persecuzioni previste, cataclismi  terrificanti… il tutto però illuminato dalla venuta del Signore (cf Mt 24,30) che infonde coraggio e fiducia nel vedere non tanto “la  fine”, ma “il fine” di tutto. 

Quindi l’immagine della “donna che soffre le doglie del parto”,  che attraversa tutto il N.T., rende molto bene la condizione della  Chiesa e di ogni singolo credente nella storia e nel mondo (cf Mt  24,8; Mc 13,8; 1Ts 5,3b; Rm 8,22; Gv 16,21; Ap 12,2ss.; anche in Is 13,8; 21,3; 26,17 e Os 13,13; Mic 4,9).

Mi soffermo su di essa perché è un “segno di vita” nel  travaglio e nel dolore, proprio come ci troviamo noi oggi in questo  tempo di pandemia che ci ha fatto però anche accorgere di quanti  altri tipi di contagio eravamo vittime senza accorgercene. 

A noi, come ai servi della parabola di Matteo 25,14-30,  vengono consegnati “i beni” che poi sono “comuni”, di tutti… ma a  noi viene dato il compito di farli produrre. 

Non c’è solo l’intraprendenza dei primi due, ma anche  l’indolenza del terzo dovuta al suo timore del padrone e al non  aver mai sentito il dono ricevuto come qualcosa di proprio e quindi  da restituire intatto. 

Qui il “capitalismo liberale” di matrice calvinista avrebbe  buon gioco, ma non è tanto questo il valore che c’è in gioco,  quanto piuttosto il rapporto di reciproca fiducia che annulla la  distanza “padrone – servo” per instaurare quella di collaborazione  e responsabilità. 

Nell’odierna liturgia della Parola “la donna” e “i servi” sono assunti a simbolo dell’autentico credente, essi hanno in  comune un carattere che ne definisce anche il valore in  rapporto alla salvezza riconosciuto unicamente da Dio: la  fedeltà. 

La donna è lodata perché il suo uomo può fidarsi di lei, e  così i servi sono ricompensati perché “fedeli”. Dunque  l’operosità umana acquista valore nella misura in cui nasce da  un rapporto di disponibilità all’amore, dalla consapevolezza  di possedere solo ciò che si è ricevuto, compresa la stessa  capacità di operare. Siamo nell’orizzonte della riconoscenza e  della gratitudine, quindi della gioia di ricevere e dare, di  condividere.  

È appunto a questa fedeltà che la Parola evangelica  promette una pienezza traboccante, inimmaginabile. Alla  fedeltà di un vivere quotidiano come dono ricco di  potenzialità, che merita rischiare e scoprirlo è il compito del credente, annuncia l’assenza del Donatore sempre presente  e la sua attesa gioiosa". 

Roberto


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