venerdì 30 aprile 2021

“LE PAROLE… LA PAROLA” 2 maggio 2021 - V domenica di Pasqua-Giovanni 15,1-8 – UN AMORE FECONDO

LE PAROLE… LA PAROLA” 

2 maggio 2021 - V domenica di Pasqua 

Giovanni 15,1-8 – UN AMORE FECONDO 

Atti apostoli 9,26-31 / Salmo 21 / 1Giovanni 3,18-24 




Giovanni 15,1-27 

Terzo discorso di Gesù nella cena pasquale 

Contestualizzazione liturgica 

Il capitolo 15 del racconto evangelico di Giovanni, viene  proclamato nel TEMPO PASQUALE: la V domenica del ciclo liturgico B i vv.  1-8 (anche il V mercoledì); i vv. 9-17 nella VI (i vv. 9-11 il V giovedì e i vv. 12-17 il V venerdì); i vv. 16-27 nella Pentecoste (vv. 18-21 anche  il V sabato; mentre i vv. 26-27 il VI lunedì). 

È un “tempo” è di mistagogia, cioè di approfondimento delle  catechesi ricevute per l’iniziazione cristiana e di crescita nella  grazia donata dai sacramenti ricevuti1. Questo nuovo percorso  avviene attraverso la lettura di interi capitoli del racconto  giovanneo che danno ai credenti una piena consapevolezza del  mistero pasquale celebrato. “La proclamazione del vangelo di  Giovanni, alcuni passi del quale sono tanto commoventi, ci  conferma nella realtà di ciò che siamo, perché le parole di Gesù,  rivolte un giorno ai discepoli oggi si rivolgono a noi”2

È sorprendente come la liturgia ci restituisca il processo di  composizione di questi testi, nati appunto dall’esperienza post  pasquale dei discepoli e delle prime comunità, alla cui luce si  rileggono le parole stesse di Gesù e i suoi gesti3

1LUIGI D'AYALA VALVA, Entrare nei misteri di Cristo. Mistagogia della liturgia eucaristica attraverso i  testi dei padri greci e bizantini. Qiqajon 2012. 

2 A. NOCENT, Tempo pasquale / 4. Assisi 1977, p. 368. 

3 Vedi B. MAGGIONI, Il vangelo di Giovanni. Assisi 2008, pp. 1763-1767. Siamo nella sezione dei “Discorsi  della cena”, un’unità giovannea molto originale su cui si potrebbero fare molte considerazioni e che fa parte  del “Libro dell’ora di glorificazione”.J. ERNST, Giovanni. Brescia 1994, p. 36. R. CHIARAZZO, Introduzione al  N.T. Piemme 1991, pp. 174-175. U. NERI, L’addio di Gesù. Reggio E. 2001. S. PANIMOLLE, Giovanni. III,  p. 155. H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, p. 428.


Il Risorto si propone ai suoi come colui che li lega a sé in un rapporto vitale. In Lui possiamo rimanere/dimorare,  una comunione reciproca intra e interpersonale, feconda, generata in noi dalla sua parola  

e dall’amore ricevuto dal Padre che Egli ci ha donato, un amore che ha la forza di diventare reciproco tra noi. 

Una nuova similitudine “vitale” 

Il testo si apre con l’intensa similitudine della vite e i tralci (vv.  1-5),riprendendo espressioni dei capitoli precedenti e contenendo  di sicuro parole di Gesù già vissute dai discepoli che sono realtà  sperimentate all’interno della comunità credente come il realizzarsi delle sue promesse, della presenza del suo Spirito, della  bellezza e fragilità della fraternità4in comunità. 

Il permanere poi nel contesto della “cena pasquale”, conferisce a questi capitoli 15, 16 e 17 un particolare “sapore  eucaristico” che, senza spingerlo troppo, si riflette sia nel modo in  cui viene descritto il nuovo rapporto tra Gesù e i credenti, sia in  quell’amore reciproco e di servizio che Egli continuamente  ribadisce come “mio e nuovo” comando, frutto del proprio  rapporto d’amore con il Padre5

I temi che vengono sviluppati e con i quali interagiscono altri  messaggi: “rimanere in Cristo” (vv. 7-10) e “i frutti che il Padre  vuole” (vv. 16-17). È un procedere “a ondate”, alcune parole o  espressioni fanno da “trampolino” per successive e ulteriori  riprese. 

4 Sul cap. 15 e la sua collocazione nel racconto evangelico di Giovanni, rimando a B. MAGGIONI, op.  cit., pp. 1797-1799. 

5 È un “discorso di/sulla Chiesa” come richiama il testo di Didachè, dove, in una preghiera eucaristica  sul calice, si esclama: “Noi ti ringraziamo, Padre nostro, per la santa vigna di Davide tuo servo, che  tu ci hai fatto conoscere per mezzo di Gesù tuo servo”. (J.P. AUDET, La Didachè. Instruction des  ApÔtres, Paris 1958, 9,1.

 

In queste parole del Signore la comunità ritroverà il proprio  “rimanere in Lui”, traendo vitalità e gioia dal dimorare nel suo  amore (vv. 11-12). Ogni credente sarà curato come figlia/figlio dal  Padre stesso; anche le proprie fragilità e le prove saranno occasioni  di crescita ed esperienza del suo amore paterno. 

Rimanere nel suo amore” (vv. 9-10) da amici suoi,  permetterà di qualificare anche i rapporti fraterni in comunità e la  misura dell’amare sarà quella di Gesù per noi: “dare la vita” (vv.  13-15) e il donarla sarà l’unico modo per accrescerla. 

L’essere “nel mondo” da cristiani non li esimerà dall’odio già  manifestato verso di Lui (vv. 18-25), ma lo Spirito della Verità, il  Consolatore che rende testimonianza di Gesù li renderà suoi testimoni (vv. 26-27). 

Giovanni 15,1-8 

Io sono la vite vera, voi i tralci

l’amore del Padre per me in voi

In questo nuovo discorso, Gesù esordisce definendosi “Io Sono la vite vera(v. 1a). Sappiamo bene il peso dell’espressione  “IO-SONO” che identifica Dio con Gesù e il declinarsi come lucepane, porta, pastore, come via, verità, vita… come vite6

Evocata dal passaggio della coppa di vino tra i commensali nel rituale della cena ebraica, l’immagine della vite polarizza tutta la  prima parte del discorso (vv. 1-7) e concentra l’attenzione dei  discepoli sulla “nuova alleanza” nella quale stanno entrando con  Gesù: l’agàpe come termine del rapporto tra Gesù e il Padre esteso  anche ad essi e che diventa “precetto” tra loro. 

6La vite oltre ad avere un retroterra biblico indiscutibile (Isaia 4,2- 5,4; 27,2-6) si pone anche in  alternativa a quello ellenistico “dell’albero della vita”. Essa rappresenta per l’ebreo il possesso di  una definitiva condizione di prosperità dopo cure assidue, rischi, speranze. Ora solo da Gesù si può  ricevere quella vitalità piena a cui tutti gli esseri umani anelano.


Nella Bibbia “la vite” è l’immagine che più rappresenta  l’amore e la cura del Signore per il suo popolo7 e quindi Gesù,  definendosi “vite, quella vera”, come “il pastore autentico” del  cap. 6, si presenta come colui che il Padre ha voluto “piantare tra  noi” dandogli anche il compito che era stato affidato ad Israele:  essergli fedele, corrispondendo al suo amore con i propri frutti. 

“Gesù, assumendo quel simbolo, si fa carico anche di  quella storia dolorosa di amore deluso, di speranze fallite…  e arditamente, alla vigilia di dare la sua vita, morendo sotto Il peso della sterilità del suo popolo infedele, afferma: Io-sono la vite vera”. 

Le espressioni usate da Gesù nel suo discorso ai discepoli e  quindi a noi, potrebbero essere rese in modo equivalente:  Io sono con voi colui che dona la pienezza della vita e della gioia, frutti dell’amore del Padre.  

E, in me, anche voi diventerete vite feconda, 

capaci di amarvi con lo stesso amore, 

non per vostra capacità, perché senza di me,  

senza la forza della mia parola, del mio amore…  

del mio Spirito in voi, non potete fare nulla. 


Nella similitudine “il Padre” ha il compito di “viticultore” (v.  1b) e noi, come i discepoli, quello di “tralci nella vite” (vv. 2.5) e  quindi il grappolo, “frutto” sperato e augurato “abbondante”, ma  mai nominato qui, dipende da tutt’intera la vite: noi “in Lui” e  l’amore del Padre “in noi” come linfa vitale (v. 6). 

Perché ci sia “più frutto” occorre che il viticultore se ne  occupi: tagliando e potando (v. 2; cf 1Gv 2,19), questo lo fa il Padre  che ha a cuore la fecondità della sua vite affinché il suo amore,  

7In Gn 49,10-12 il tempo messianico è connotato dai frutti abbondanti della vite; in Os 10,1-3; 3,1,  Israele è paragonato ad una vigna. Come in altri profeti dal contenuto dell’alleanza si passa a quello  del giudizio (cf Geremia 2,21; 8,13, 5,10, 12,10; Ezechiele 19,10-14; 17,5-19) come nei Sinottici con  la parabola dei vignaioli omicidi Mc 12,1-2 e par. Un grido di speranza si leva dal Sal 80 poiché alla  fine Dio rimane sempre “deluso” dagli esiti della sua amorevole cura per il suo popolo.


donato tramite il Figlio, giunga da noi a tutti sempre genuino e  vivificante. 

Senza di me non potete fare nulla” (v. 5c) definisce la  conclusione di tutta la storia della salvezza tra Dio e Israele, ma è  anche il destino di tutta l’umanità e di ogni essere umano:  l’esistenza di ciascuno di noi anela alla piena felicità (cf v. 11) e ora  essa ci è donata in Gesù, attraverso la sua parola e il suo amore  che rimangono in noi e ci permettono di rimanere in Lui (cf vv.  7.9.10). 

“Al di là del simbolo usato da Gesù, credere oggi a questa  parola significa per noi realizzare con i fatti e nella verità l’abbondono fiducioso all’unica forza vitale che è nell’amore  di Dio, cuore più grande del nostro a dispetto di qualunque  cosa esso ci rimproveri (cf 1Giovanni 3,18-24 - II lettura  odierna)”, rispetto alla nostra paura di deludere le attese del  Padre, di mortificare le nostre possibilità e capacità, di  inaridirci nella terra in cui siamo radicati.  

Anche per essere fedeli al nostro servizio nella comunità, senza cedere agli insuccessi della sola parola oltre che della  testimonianza; per credere ad una crescita comunitaria senza  cadere nell’efficientismo (Atti 9,26-31 - I lettura); 

constatando le nostre di infedeltà… l’unica conoscenza che ci  è data è quella di fidarci dell’amore, forte più di ogni nostra  sterilità, della morte stessa.

venerdì 23 aprile 2021

“LE PAROLE… LA PAROLA” 25 aprile 2021 - IV domenica di Pasqua Gv 10, 11-18– Solo chi dà la sua vita può fare da pastore

LE PAROLE… LA PAROLA” 

25 aprile 2021 - IV domenica di Pasqua 

Gv 10, 11-18Solo chi dà la sua vita può fare da pastore

Atti apostoli 4,8-12 / Salmo 117 / 1Giovanni 3,1-12 



Contestualizzazione liturgica 

Il capitolo 10 del racconto evangelico di Giovanni, viene  proclamato nella IV domenica del “tempo pasquale”: i vv. 1-10 nel ciclo  A (similitudine della “porta”), i vv. 11-18 nel ciclo B (similitudine del  “pastore”), i vv. 27-30 nel ciclo C. 

Questa domenica è denominata comunemente del “Buon  Pastore”, a carattere “vocazionale”. 

Giovanni 10,1-10: IO-SONO la porta per le pecore”. Una similitudine per spiegare un “segno” 

L’evangelista riporta una prima similitudine che non è capita dagli  ultimi interlocutori di Gesù(cf v. 6),i farisei con i quali ha avuto una forte  discussione a riguardo della guarigione dell’uomo nato cieco (cf 9,40- 41). Senza soluzione di continuità ha inizio bruscamente un nuovo  insegnamento, che è la spiegazione parabolica di quello che è  precedentemente avvenuto nel Tempio, provocando alla fine  un’ulteriore discussione ed opposizione da parte dalle autorità  giudaiche che Gesù identificati come ladri, ai briganti ed estranei al  gregge (cf v. 10; vv. 19-21). 

Ermeneutica della similitudine 

Gesù inizia la sua ermeneutica con termini “divini” (“IO-SONO”), dichiarando così che ora è Lui la porta” attraverso la quale le pecore  possono uscire ed entrare liberamente dal “sacro recinto1 per  

pascolare (cf vv. 7.9) e che questo costituisce il motivo e il senso della  sua venuta messianica: “dare Vita in abbondanza” (cf v. 10b).


1Lo si deduce dal fatto che qui Giovanni non usa il termine greco epàulos (ovile), ma aulè che è il  termine greco con cui la traduzione dei LXX indica la “Tenda del Santuario” nella peregrinazione del  popolo nel deserto (115 volte su 177). “Disporrai il recinto tutt'attorno e metterai la cortina alla  porta del recinto” (Es 40,1ss.8; cf 27,9; Lv 8,10; 2Cr 6,13; 11,16). Qui si dà grande importanza al recinto attorno alla Dimora (la Tenda/Santuario che Dio riempie con la sua gloriosa presenza (cf  v.34) e Mosè mise la cortina alla porta del recinto” (v. 33).  



Così Gesù si pone così come passaggio unico e obbligato per la  salvezza, sia a favore del popolo sia di chi lo guida. Infatti. il ruolo delle  “guide di Israele” era di continuare la “cura” di Dio per il suo popolo e  di avvicinare a Lui le persone che hanno bisogno della sua presenza e  della sua misericordia. Già Ezechiele con le sue profezie, inveiva contro  i cattivi pastori (34,1-34)2

Attraverso Gesù la porta”, il popolo è finalmente libero di  “entrare e di uscire”, che non è solo libertà di movimento, ma di chi vive  oramai in una piena comunione di vita e di fiducia. Libertà nel nutrirsi della vita di Dio che è amore e non più una norma come la Legge3, Vita donata gratuitamente e “in abbondanza”, cioè totalmente e  pienamente (cf 2,6-10; 6,11ss.)4

Giovanni 10,11–18: IO-SONO il vero pastore delle pecore”. 

Ora Gesù identifica se stesso con “il pastore” e dichiarando “IO SONO”, con Dio stesso “pastore” del suo popolo (Ez 34) e ne dimostra  tutte le migliori qualità: bontà, bellezza, autenticità e unicità,  riconosciute dalle pecore in base al suo comportamento nei loro  confronti che lo distinguono dagli altri “pagati” per questo compito. 

Gesù è “il vero pastore”, quello “bello/buono” (cf 7,12), il  legittimo: 

1. anzitutto perché “rischia la sua vita a favore delle pecore” (v. 11)  a differenza del “mercenario che… scorge il lupo, abbandona le pecore  e fugge” (vv. 12-13); 

2 Per questo il ricordo del “re-pastore”, Davide viene idealizzato e si fa strada l’ideale del “messia pastore” atteso per il suo potere spirituale e la sua cura per le necessità delle persone non della  “ragion di stato” (cf Is 44,28; Ger 23,5-6; Ez 34,23). 

3 Da notare il gioco di parole tra nome = pascolo e nòmos = legge. 

4 Come c’è un crescendo nel rapporto negativo che sfrutta, sottomette e annienta “rubare – uccidere  – annientare” (v. 10a) così nella nuova relazione positiva e vitale “vita e in abbondanza” (v. 10b).

 

2. anche “il mercenario” è un pastore, ma è salariato e quindi lo fa  perché ha un suo tornaconto economico, non perché le pecore siano  sue e quindi “non gli importa”, e non metterebbe certo a rischio la sua  vita per difenderle; 

3. invece “il vero pastore” ha un rapporto personale con le sue  pecore, di “reciproca conoscenza”, lo stesso rapporto che Lui da Figlio  ha con il Padre (vv. 14-15a); 

4. per questo “mette la sua vita a disposizione delle pecore” (v. 15b) cioè la espone, la depone a loro favore; 

5. le sue pecore non sono solo tra il popolo di Israele, “di questo  recinto”,ma di tutti i popoli e il suo compito è di condurre anche quelle,  che ascoltando anch’esse la sua voce, “diventeranno un unico gregge  con un solo pastore” (vv. 17; cf 18,37), in piena libertà e non più dentro  un recinto pur sacro5

Gesù non solo “rischia la vita a favore delle pecore” quando esse  sono nel pericolo di essere assalite e sbranate dai lupi, ma anticipatamente “la offre6, lo fa liberamente e non perché qualcuno  glie la prende con la forza: ha questo potere “di offrila e di riprenderla  di nuovo” (cf vv. 17b.18a) e lo può fare perché il Padre glie lo comanda e per questo lo ama (cf vv. 18b.17a; 13,49-50)7

Più volte nel vangelo di Giovannisi definisce Gesù come colui che  “dà la sua vita per…; dà Vita al mondo; chi crede in Lui ha la vita  indefettibile” (cf capp. 6 e 11), ma qui vengono messi in evidenza alcuni  aspetti particolari: 

- “offre la sua vita”, la depone in favore delle pecore, la espone mettendola a loro disposizione;  

-la “morte” del pastore è “Vita” per le pecore, esse cioè si nutrono  della sua vita donata a loro (cf 6,54), Lui stesso è il loro pascolo

5 A tal proposito vedi in E. BORGHI, Il cammino dell’amore., p.160, nota 236 

6Deporre la vita” oltre che ricorrere qui nel cap. 10, appare anche in 13,37.38; 15,13. 7 Ho cercato di rendere “lineare” un discorso che è invece, come tipico di Giovanni “circolare” (vv. 17b/18a – 18b/17a).


- la Vita delle pecore che nasce dalla morte del pastore è la sua  “risurrezione/restituzione” (cf vv. 17.18)8

- Egli fa questo “liberamente e in obbedienza” al Padre e solo il  Figlio, legato da amore al Padre, ha questo “potere”; invece il mondo vive la libertà nella totale autonomia fino ad opporsi ed a rifiutarlo; 

- questa scelta da parte di Gesù è la “salvezza del mondo” (cf 3, 16- 17) ed Egli può dirsi “il legittimo pastore” perché si comporta da  “Agnello che toglie il peccato del mondo” (cf 1,29); 

- ecco perché il dono della sua vita in quanto “unico pastore”  travalica i confini di Israele, dell’antica alleanza, e riguarda tutta  l’umanità riunendola in un solo popolo guidato da Lui

Nel Figlio il mondo non è più in opposizione a Dio ma, in quanto  “amato” (cf 3,16), è anche “unificato” annullando e superando tutte le  sue divergenze e i suoi conflitti. 

A questo punto gli unici ad essere “divisi” sono i capi giudei (cf v. 19): loro rappresentano ciò che rimane di “mondano” in opposizione a  Gesù, da loro “il peccato” non può essere tolto, come aveva concluso  in 9,41 per la loro opposizione alla guarigione del cieco. 

Di qui il loro disprezzo per Gesù e le accuse più efferate contro di  lui (cf vv. 19-21). 

Al termine di quest’ermeneutica complessa, ma avvincente, vorrei  evidenziare alcuni passaggi, che costituiscono “punti fermi” del  messaggio di Gesù raccolto e riportato a noi dal racconto evangelico di  Giovanni9

L’unicità di una relazione ha la capacità di far vivere pienamente  l’esistenza. Se questo vale per i rapporti tra noi, a maggior ragione tra  noi e Gesù, che deve l’essere Vita proprio alla sua unità con il Padre. 

Il bisogno di avere una guida attenta e costruttiva, un punto di  riferimento dinamico e affidabile è soddisfatto nel momento in cui  siamo attivati responsabilmente a percorrere con fiducia e realismo la  

8 E. BORGHI, op. cit., pp. 161-162. 

9 E. BORGHI, op. cit., pp.163-166.


nostra esistenza: vale il detto popolare “Attento a chi vuole il tuo bene  perché forse sta cercando di portartelo via!”. Ci sono molti ladri, briganti  e lupi… “vestiti da agnelli” (cf Mt7,15) dentro e fuori le istituzioni di ogni  genere. 

L’effetto di ogni buona guida è di aiutarci: 

- a riconoscere cosa e dove sia la porta per un percorso vitale  “alto”;  

- a non aver paura di inoltrarci in percorsi che poi potrebbero rilevarsi pericolosi; 

- a discernere tra generosità e disponibilità af/fidandoci di chi,  come Gesù si è affidato al Padre;  

- a ritrovarci in un circuito di amore e di comunione che stimola la  reciprocità e che più unisce più libera.



La comunità credente e celebrante vive alla luce del Risorto e in  Lui riconosce “il Nome che ci salva” Yeshu’a, colui che ci fa uscire da  un’esistenza “inferma” e paralizzata dalla “morte”. 

In Atti 4 riceviamo la testimonianza della “povertà” degli apostoli  e della loro fiducia in Colui che è stato “scartato” e che ora è il  fondamento della loro nuova esistenza e dell’umanità nuova; nello  stesso tempo la loro fiducia nella forza di quell’amore che come pietra  angolare (Salmo 117) sostiene la costruzione di nuovi percorsi di vita,  fondamento sicuro di un mondo nuovo, fraterno perché composto da  figlie e figli. 

Figli nel Figlio, passati con Lui dalla morte alla vita, anche se nulla  appare esteriormente (1Giovanni 3), ma che sta come seme, forza vitale nascosta in noi e in mezzo a noi. 

Eppure lo sappiamo: è così! 

Lo sappiamo perché noi per primi siamo “conosciuti”, cioè  “amati”. Come pecore dal loro pastore, posti con lui in una relazione  silenziosa e reciproca, in un’apertura senza ostacoli dato che Egli per  primo non ne ha nei nostri confronti (Giovanni 10). 

Piuttosto Egli condivide integralmente il cammino, i rischi, le mete  dell’esistenza perché compie la sua esistenza filiale come un atto di  estrema consegna “deponendo” la sua Vita, ricevuta dal Padre con un  libero dono d’amore, donandola a noi liberamente e gratuitamente,  non da mercenario. 

Ascoltarlo, seguirlo liberamente, attratti e affascinati dalla sua  “voce” stabilisce una comunione che ci permette di far diventare nostro  il suo “modo di vivere”, liberi dall’egoismo mortifero, liberi di amare! Non seguiamo noi in realtà l’Agnello pastore?!

Così sapremo riconoscere la sua “voce” tra le mille altre che  subdolamente ci “obbligano” ad andare dove non vogliamo; che ci  offrono soluzioni con le loro chiacchere, ma di cui nessuno e pronto a  dare la sua vita per noi. 

Quanti siamo, Signore gli scartati dagli altri o dalla vita… come ciottoli anonimi, rotolati vi senza un senso; ma tu passi e ti  chini a raccoglierci e tra le tue mani diventiamo gemme preziose perché amati, cuori palpitanti perché appassionati, spiriti ribelli  perché finalmente liberi e amanti. E ci regali tenerezza accarezzandoci lievemente… dolcemente… profondamente”.

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