domenica 27 settembre 2020

SALUTO ALLA COMUNITA’ PARROCCHIALE DI S. TOMMASO – ORTONA 27.09.2020


 ESSERE Chiesa per FARE Chiesa” 

Condivido anche con voi il saluto che ho indirizzato 

alla comunità parrocchiale di S. Tommaso apostolo in Ortona (Ch) 

nella quale da domenica 27 p.v. ho iniziato il mio servizio pastorale. 

Non si tratta solo di una cordiale presentazione,  

ma ho voluto fin dall’inizio orientare il cammino pastorale  

seguendo le indicazioni di papa Francesco.  

Vi si trovano dei passaggi utili a tutti noi nel nostro intento di “essere Chiesa”,  in particolare a chi svolge un ministero nella sua comunità. 

SALUTO ALLA COMUNITA’ PARROCCHIALE DI S. TOMMASO – ORTONA 

Affido allo scritto un saluto a tutta la comunità parrocchiale che ha nell’apostolo Tommaso  il suo insigne titolare e soprattutto il suo riferimento apostolico nel vivere e testimoniare la fede nel  Signore Gesù, il Crocifisso Risorto. 

Sono anzitutto onorato di essere stato chiamato dall’arcivescovo Emidio a presiedere nella  carità questa porzione ortonese della Chiesa Frentana, anche come custode delle reliquie mortali  dell’Apostolo. 

Ringrazio don Pino di avermi accolto con cordialità, introducendomi progressivamente  nell’articolata vita parrocchiale: in un periodo segnato da profondi cambiamenti, “un cambiamento  d’epoca”, anche il cambio di pastore può essere vissuto come destabilizzante oppure come  un’opportunità che ci viene offerta per “ripartire insieme” e non solo “ricominciare”. 

Sarà proprio questo “il tempo favorevole” (kairòs) per dedicarci all’ascolto reciproco che ci  accompagnerà ad una conoscenza personale, alla narrazione del nostro vissuto di comunità che è  sempre una realtà da costruire e mai presumere che sussista per il semplice radunarci fosse anche  per l’Eucaristia, ed essere cosi creativi nell’assumere con realismo le sfide che ci attendono nel  ripensare la vita parrocchiale e le sue attività.  

Può riguardarci la pubblicità di una nota bevanda: #MaiComePrima #ComeMaiPrima. 

Ci prenderemo il tempo necessario per le decisioni che riguardano tutta la comunità  nell’iniziazione cristiana dei più piccoli e giovani, nello stile di celebrare, nell’organizzare in sicurezza  gli spazi e gli ambienti di cui siamo dotati, e lo faremo con il consiglio pastorale e nei diversi gruppi  ministeriali in sintonia con le famiglie e tutte le persone di buona volontà. 

“Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla” (FRANCESCO, Omelia. Pentecoste 2020). Si tratta di avere il coraggio di “prendere l’iniziativa” (primerear), di fare il primo passo, senza subire  le situazioni come una fatica, senza arrenderci ma “consegnandoci” con amore al Signore e ai nostri  fratelli e sorelle. 

Faremo nostri i “verbi di papa Francesco” che in lui sono “gesti profetici”, con  quell’atteggiamento che può fare di noi “una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte  aperte, …cerchiamo di essere una Chiesa che trova strade nuove, che è capace di uscire da se stessa  e andare verso chi non la frequenta. Ma ci vuole audacia e coraggio” (19 agosto 2013).

Coinvolgerci è l’invito che sento rivolto a me iniziando tra voi ad annusare il vostro “odore”  …e voi il mio. 

Siamo chiamati ad accompagnare gli uni gli altri, sostenendoci quando sarà necessario. 

È questo il tempo di seminare tendendo vivo il sogno “che la Parola venga accolta e manifesti  la sua potenza liberatrice e rinnovatrice”. 

Intanto possiamo celebrare e festeggiare: “La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la  bellezza della Liturgia… fonte di un rinnovato impulso a donarsi” (FRANCESCO, La gioia del Vangelo 24). 

Alla prossima puntata! 

Un abbraccio… anche in tempo di “distanziamento”. 

don Roberto Geroldi


venerdì 25 settembre 2020

“LE PAROLE…LA PAROLA” 27 Settembre 2020

 LE PAROLE…LA PAROLA” 

27 Settembre 2020 (Domenica XXVI TO/A) 

Ezechiele 18,25-28 / Salmo 24 / Filippesi 2,1-11 / Matteo 21,28-32 



LE PAROLE…LA PAROLA” 

27 Settembre 2020 (Domenica XXVI TO/A) 

Ezechiele 18,25-28 / Salmo 24 / Filippesi 2,1-11 / Matteo 21,28-32 

Tra il dire e il fare c’è di mezzo… Gesù, il Figlio! 

Stavolta non sono più braccianti chiamati a lavorare nella  vigna (cf 20,1-16 della scorsa domenica), ma due figli inviati dal  Padre invia a lavorare nel podere che dovrebbero ritenere anche  come proprio. 

Nella parabola che Gesù rivolge “ai capi dei sacerdoti e agli  anziani del popolo” (cf 21,28-31a), il primo passa per uno  “sfaticato” o meglio potrebbe essere il più grande che, come  succede spesso nelle famiglie, si lamenta di dover essere sempre  lui a dover sbrigare le incombenze che gli altri cercano di evitare. 

Una volta tanto si impunta apertamente: “Non ne ho voglia”,senza  addurre nessun valido motivo… ma ci ripensa e ci va! Così ci diventa subito simpatico, a differenza del secondo che  da bravo “yes man” subito dice “Si, signore”, ma poi non ci va. Irrompe la domanda di Gesù ai suoi interlocutori: “Chi dei due  ha compiuto la volontà del padre?”. La risposta è scontata anche  per noi, tanto da far risultare retorica la domanda stessa. A questo punto è necessario approfondire un po’, allargando  l’orizzonte e puntando l’obbiettivo dell’uditorio sul contesto del  racconto evangelico. 

Gesù sale verso Gerusalemme”, e dopo aver annunciato ai  discepoli, per la terza volta, il suo destino di sofferenza e di morte (cf  20,17-19), si scontra con la loro cecità: non ne capiscono il senso e  sono invece interessati a condividere con Lui solo il successo  messianico (cf vv. 20-25). “Li richiama a sé” mettendoli davanti al suo  essere l’Inviato di Dio: “non per essere servito, ma per servire e dare  la sua vita come riscatto per molti” (v. 28). La conseguenza, anche per loro discepoli, è quella di diventare “i primi” (cf 19,30 e 20,16) e “i  grandi” servendo gli altri (cf vv. 26-27). 

Ora, anche geograficamente, la visuale del narratore evangelico  si sposta dalla Città santa (+754 m. s.l.m.) a Gerico, la città più “in  basso” di tutto il pianeta (-250/280 m. s.l.m.), ed inquadra “due ciechi,  seduti lungo la strada”; si rivolgono a Gesù in termini messianici  (“figlio di Davide”) che li interpella sulla loro richiesta e gli dicono  “Signore, che i nostri occhi si aprano!”. La supplica suscita in Lui una compassione viscerale che non solo fa loro riacquistare la vista  perduta, ma permette anche di seguirlo come discepoli (cf vv. 29-34). Si delinea qui un nuovo profilo di discepolo/credente: generato a  nuova vita dalla misericordia e dalla tenerezza, l’amore che genera e  attrae (cf v. 34), esso è di rifermento per i discepoli di allora e per i  cristiani di oggi. 

Poi siamo di nuovo in avvicinamento a Gerusalemme, a Bètfage da cui parte il corteo trionfale che accompagna Gesù, “il profeta  galilaico”, acclamandolo “Inviato del Signore, figlio di Davide!” (cf  21,1-11 / Salmo 118,26). 

Tornando nel Tempio di Gerusalemme, dopo averne cacciato i  mercanti e i cambiavalute il giorno prima (cf vv. 12-22) e il  pernottamento a Betània, fatto seccare il fico pianta simbolo della  Torah (cf vv. 17-20) e appellatosi ad una fede più matura e legata al  rapporto con Dio (cf vv. 20-22), adesso si rifiuta di rispondere alla  domanda degli “avversari” sull’autorevolezza del suo insegnamento  (cf vv. 23-27) e, come spesso capita, è Lui ad interrogarli.  

Ricorre quindi a tre parabole (cf v. 28- 22,14) finalizzate ad  evidenziare la loro opposizione al modo in cui Dio offre la sua salvezza  attraverso Gesù, che troverà il suo apice nel cap. 23. 

Già nelle parole di Ezechiele si manifestava l’incomprensione  per l’agire misericordioso di Dio e la sua risposta a questa  esclusione (18,25—28 / I lettura). 

Ma la conclusione della prima parabola, proclamata oggi nelle  nostre assemblee liturgiche, a chi è rivolta tenendo conto della sua  perentorietà? 

In verità io vi dico: gli esattori delle tasse e le prostitute  vi passano avanti nel regno” (v. 31b).

 

Anzitutto ai capi religiosi del popolo, che contrariamente a pubblicani e prostitute non hanno creduto, né prima né dopo,  nemmeno a Giovanni il battezzatore che “giunse mantenendosi  sulla strada del compimento della volontà di Dio” (cf v. 32). 

Anche i discepoli però devono sempre guardarsi sia  dall’ipocrisia dei precedenti che dal rifugiarsi nel dire e non fare.  Fin dall’inizio infatti Gesù aveva loro detto loro che “Non chiunque  mi dice: Signore, Signore entrerà nel regno… ma chi fa la volontà  del Padre mio” (7,21). 

“Non cessa di smascherare i nostri inganni, dietro i quali  tentiamo di difenderci dalla rischiosa libertà di seguire il suo  evangelo. L’ambiguità di fondo tra un apparente “si” e un concreto  “no” è il tarlo terribile che vela il volto della comunità dei credenti.  Dio però non è paralizzato dalle nostre ambiguità, bensì dalla  nostra pretesa di difenderle”. 

L’unica via possibile, anche per noi, per uscire da ogni  ambiguità e contraddizione è quella di riconoscerci figlie e figli  sempre amati e chiamati, “un invito amoroso alla vita”. 

“Figli nel Figlio”, assumendo il suo modo di essere e di  esprimersi come tale fino in fondo, o meglio fino “al fondo” dove  siamo noi e dove giace gran parte dell’umanità. Qui possiamo tutti  sentirci concordi e unanimi,sia dal punto di partenza che di arrivo,  e nel Figlio Gesù ci troviamo messi al nostro posto. 

Davvero Lui, “il primo” si è fatto “l’ultimo”, ma è proprio  questo che permette a Dio di agire con tutta la forza del suo amore  e di dare a noi la gioia di sentirci fratelli e sorelle e il conforto di  condividere un amore di tenerezza compassionevole (Paolo ai  cristiani di Filippi 2,1-11 / II lettura). 

Roberto


sabato 19 settembre 2020

“LE PAROLE…LA PAROLA” 20 Settembre 2020



 LE PAROLE…LA PAROLA” 

20 Settembre 2020 (Domenica XXV TO/A) 

Isaia 55,6-9 / Salmo 144 / Filippesi 1,20…24 / Matteo 20,1-16 


Se sei uno scarto, Dio ti sceglie! 

Sarebbe da fare una “vertenza sindacale” sulla parabola  riportata da Matteo all’inizio del capitolo 20, ma non ha a che fare  con nessuna “dottrina sociale”, nemmeno della chiesa cattolica.  

È piuttosto l’illustrazione parabolica, spesso paradossale nel  genere letterario di questo vangelo, dell’affermazione che  conclude il capitolo 19 (totalmente escluso dalla sequenza della  proclamazione liturgica festiva):  

Molti primi saranno ultimi e molti ultimi, primi” (v. 30). Perché e come mai succederà così? Sono le nostre domande  che hanno una risposta nel successivo v. 16: “Così gli ultimi  saranno primi, e i primi ultimi”. 

Siamo ancora una volta catapultati nella logica irragionevole  dell’amore gratuito del Padre (v. 15a) che smaschera, dietro le  nostre pretese di una giusta retribuzione per quanto umanamente  compiuto da ciascuno, la nostra grettezza e presunzione (v. 15b): 

Non posso fare del mio quello che voglio?  

Oppure tu sei accecato dall’invidia perché io sono buono?!”. Ci colpisce, e di sicuro ci stupisce (spero senza sdegno…), il  comportamento del padrone che a fine giornata paga tutti i suoi operai in modo uguale e non in base alle ore di lavoro svolto,  mentre ci può sfuggire la sua costanza nell’uscire a diverse ore del  giorno, e non solo all’alba, per chiamare a lavorare nella sua vigna. Questo folle datore di lavoro esce ben cinque volte ad  ingaggiare manovalanza, non solo perché ne ha bisogno ma perché  non tollera “disoccupati”, lo trova umiliante per loro e per sé…  sente quasi il dovere di assumerli lui (v. 3).


Alla fine prende pure gli “scartati”, gli “incapaci” … quelli che  nessuno vuole a lavorare: “Nessuno ci ha ingaggiato” (v. 7). Di fronte alla mormorazione dei “primi” (vv. 11-12) si scopre  il motivo di questo “strampalato” agire:  

Amico, io non sono ingiusto verso di te...,  

desidero dare anche a quest’ultimo come a te” (vv. 13-14). Non siamo braccianti arruolati per la vita e nemmeno per  servire nella comunità, ma siamo “amici”: liberi e responsabili! Non è solo un problema di retribuzione, ma di  “riconoscimento”: “li ha resi uguali a noi…” (v. 12).  Ci dà fastidio che tutti siano amati nello stesso modo e nella  stessa misura dal Padre! 

Ci può rassicurare però che, se anche non siamo i discepoli  della prima ora, ma dell’ultima, non avremo meno di loro. Anche Pietro può ritenersi soddisfatto per la sua richiesta  dopo l’affermazione di Gesù che aveva “fatto uscire di testa” i  discepoli: “Chi dunque può essere salvato?” (cf 19,25). - Gesù: “Presso Dio tutto è possibile” (v. 26). 

- Pietro: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo  seguito; cosa ci sarà dato?” (v. 27). 

Siamo sempre in buona compagnia, quando non capiamo la  logica evangelica e non ci resta che arrenderci all’amore di Dio! “Le sue vie non sono le nostre” ci anticipa Isaia (55,6-9 – I  lettura), eppure il Signore “è vicino” se noi ci lasciamo raggiungere  dal suo invito e dalla sua prossimità, che accorcia ogni distanza e  supera ogni nostra immaginazione religiosa. 

Nessuno di noi potrà mai accampare diritti o qualche vana  possibilità di “guadagnarci” la sua misericordia, il suo dono  sovrabbondante di vita. Solo l’invidia o la nostra pretesa di imporre  a Dio i nostri criteri svuota di senso e di valore anche la risposta  che saremo stati capaci di dargli, nonostante tutto.


Gesù si pone davanti a noi come colui che non ha obiettato  alla logica del Padre, ritenendola ingiusta per sé e tutta sbilanciata  a nostro favore, Lui il “figlio della prima ora” per noi “dell’ultima”. 

Oggi, invitati alla sua mensa, tutti Egli chiama “Amico” nel  condividere la stessa ricompensa del suo amore, tutti siamo resi  così “degni del Vangelo di Cristo” (Paolo i Filippesi – II lettura). 

Roberto


domenica 13 settembre 2020

“LE PAROLE…LA PAROLA” 13 Settembre 2020

 LE PAROLELA PAROLA” 

13 Settembre 2020 (Domenica XXIV TO/A) 

Siracide 27,30- 28,7 – Salmo 102 – Romani 14,7-9 – Matteo 18,21-35




Una misura senza misura. 

Per noi cristiani vivere e morire non sono più eventi “per cause  naturali”, ma costituiscono gli estremi del nostro “essere in/di Cristo” in modo libero e consapevole, come dono e scelta di “non vivere-più-per-se-stessi”. Infatti la signoria di Cristo su di noi  scaturisce dal suo aver vissuto ed essere morto “per noi”, per  amore nostro (cf Paolo ai cristiani di Roma 14,7-9 – II lettura). 

Questo fa sì che a Pietro il Signore proponga un’infinita “cifra”  di replicare il perdono che scaturisce non da relazioni umane a  nostra disposizione, ma dal rapporto fondamentale, “genetico” di  tutti gli esseri umani: figli dello stesso Padre, fratelli e sorelle tra  loro (Matteo 18,21ss.). Ad una mentalità “contabile” si oppone la  logica della gratuità: “Così anche il Padre mio farà a voi” (cf v. 35). 

Pietro, con la sua domanda, si pone in rapporto con il fratello  identificandosi per partito preso con il “creditore”, colui che  accampa i suoi diritti verso il “debitore”; contrapponendo la  “piccolezza” dell’altro con la sua presunta “grandezza” di poter  concedere o negare il perdono. Da qui parte il racconto parabolico  di Gesù, operando un processo di verità, smascherando la pretesa  di essere giusti, necessario ad operare l’ultima conversione (cf v.  3). 

Per questo l’ipotesi prevede sempre e comunque una colpa  commessa da “mio fratello… contro di me”. Già così Gesù aveva posto la relazione: per i suoi discepoli tutti sono “fratelli o sorelle”  (cf v. 15). 

Se l’esistenza stessa è un “dono ricevuto”, il mio vivere deve  essere determinato dal radicale e costante apertura al “per-dono”, 

alla gratuità dell’amore anche quando le sue esigenze fossero  assurde, illogiche. 

“Al di fuori di questa visione…, in una società dominata dalla  sopraffazione che senso avrebbe parlare di perdono, dove questa  parola stessa potrebbe essere equivocata come se autenticasse le  varie forme di ingiustizia di un’umanità che ha dimenticato cosa sia  ricevere misericordia”. 

Ecco la dirompente novità che affascina i discepoli, come  anche i membri della comunità cristiana, e quindi anche noi lettori: rapporti regolati dalla compassione (cf vv. 27.33). 

Rancore e odio sono cose orribili… dentro. …vendetta.  Ricordati: ‘non odiare’… e dimentica gli errori altrui. Perdona  l’offesa al tuo prossimo e… ti saranno rimessi i peccati” (Siracide  27,30- 28.7 – I lettura). 

“Ricordare l’alleanza e dimenticare gli errori altrui”. È un esercizio costante e liberante, che non ci fa rimanere  schiavi del passato e dei rancori; “un’esperienza capace di  generare, senza ambiguità, la forza del perdono interumano di  misericordia, con la stessa insensata, traboccante misura che è  quella di Dio”. 

All’apparenza un perdere che, può anche correre il rischio di  essere strumentalizzato, incompreso e quindi di non suscitare  riposta come quello di Gesù fin sulla croce (cf Luca 23,24. 39-43),  ma che assicura una “restituzione del debito” pagato da Lui stesso  fino alla fine. 

Perdonare a partire dal proprio cuore (cf v. 35), non è un  appello alla propria sensibilità umana, quasi una connaturale  inclinazione ad essere indulgenti, perché in realtà noi  propendiamo per la giustizia che risarcisce e argina la sete di  vendetta. 

A partire dal proprio cuore è l’espressione di un processo  attraverso il quale ognuno di noi, lettori-discepoli, siamo  smascherati da presunti creditori e finalmente vediamo in noi il 

volto del “servo malvagio”: un debitore infinitamente perdonato e  incapace di perdonare. 

Seguendo Gesù, passo dopo passo ritroviamo in noi i  lineamenti del Figlio “mite e umile” nel prendere decisioni (cf  11,29, 5,5.7), “misericordioso” (cf 9,12-13), da Lui tutti siamo  invitati a “farci piccoli” (cf v. 4) e partendo da questa piccolezza 

scoprire con stupore e con gioia l’insperata capacità di amare  senza limiti, perdonando. 

Si tratta di una “piccolezza condivisa” che ci aiuta a superare  un’errata concezione di noi stessi, la nostra connaturale e  orgogliosa autosufficienza per aprirci alla figliolanza accolta e  fraternamente condivisa. 

Per questo siamo fedeli, “formati” al suo esempio ed  insegnamento nel pregare ogni giorno rivolgendoci al Padre, a quel  patto che lega reciprocamente il nostro perdonare agli altri in forza  del suo perdono (cf vv. 10.14). 

Sapientemente è stato inserito quel “come anche noi” che  risuona nella parola di Matteo (cf 6,12) e che oggi ci viene  proclamata: “non dovevi anche tu aver compassione del tuo  compagno, così come io ho avuto misericordia di te?” (cf v. 33). 

La nostra richiesta, nella “preghiera del Signore”, sta accanto  a quella del “pane quotidiano”, “perché è ciò di cui la nostra  umanità ha più bisogno per non autodistruggersi nel vano sforzo  di “vivere-per-se-stessi”. 

Roberto


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