mercoledì 24 novembre 2021

Il “regno di Dio” e la “regalità” del Nazareno nel vangelo di Giovanni

Il “regno di Dio” e la “regalità” del Nazareno  nel vangelo di Giovanni 






Nel proclamare e commentare l’evangelo nella solennità di  “Cristo Re e Signore dell’universo”, tratto da Giovanni 18,33-38, mi  sono venute in mente alcune osservazioni, che condivido dopo  averle confrontate con il commento della Comunità di Bose1

Anzitutto mentre nei tre vangeli sinottici fin dall’inizio Gesù  stesso annuncia la prossimità del “regno di Dio” (Marco 3,15) e poi  è richiamato in continuazione anche con le parabole (cf Matteo 4,23; capitolo 13), in quello di Giovanni l’espressione compare solo  in 3,3.5 come sinonimo di “esperienza della presenza di Dio” e  “mio regno” qui in 18,36. 

Soprattutto nel racconto della passione e morte (cf Gv 18,1- 19,42) il titolo di “re” attribuito a Gesù ricorre spesso2. Questo racconto non è soltanto la conclusione drammatica  della vicenda terrena del Messia nazareno, ma, secondo la  cristologia di Giovanni, la sua massima “manifestazione” 3: in Lui si  può “vedere” il vero volto di Dio, “conoscerlo”, farne esperienza  entrando in comunione vitale [regno, secondo 3,5]. La folla aveva tentato una volta di proporre Gesù come “re”,  dopo essere stata sfamata da Lui; ma egli si sottrae a questa  opzione opportunista (cf 6,15). In questo modo non fugge tanto  una pericolosa situazione in cui si sarebbe venuto a trovare con  una specie di “golpe” contro Erode e i Romani, ma rivela il suo  rifiuto di una logica manipolatrice dell’amore di Dio di cui il  prodigio dei pani è stato il segno

1La celebrazione di questa festa è stata ricompresa dalla riforma liturgica del Vaticano II,  grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù Re nella sua passione: il passo  odierno per l’anno B; Luca 23,35-43 per il C e come Giudice che viene nella misericordia con Matteo 25,31-46 nell’annata A. 

2 Questo titolo di Re di Israele, di Re dei giudei, nel vangelo secondo Giovanni è decisivo  riguardo all’identità di Gesù. Fin dall’inizio del vangelo risuona sulle labbra di Natanaele, nell’ora  della sua vocazione e del suo primo incontro con Gesù (cf. Gv 1,49): confessione di fede che  riconosce il Messia, discendente di David, Re-Figlio di Dio, colui che adempie la promessa di Dio per  il suo popolo e porta la liberazione, la giustizia e la pace. Proprio nell’attesa del compimento di  questa promessa, la speranza messianica era viva al tempo di Gesù ma si era caricata di attesa  politica, di desiderio di sovranità mondana! Per questo, quando le folle avevano visto il segno della  moltiplicazione dei pani, volevano prendere Gesù per farlo re (cf. Gv 6,14), ma non vi riuscirono  perché egli fuggì da loro ritirandosi nella solitudine della montagna (cf. Gv 6,15). Ma anche quando  Gesù entra in Gerusalemme per la sua ultima Pasqua, la folla gli va incontro con rami di palma,  acclamandolo “Re d’Israele veniente, benedetto nel nome del Signore (Gv 12,13). Eppure anche  quell’evento non viene capito nel suo significato, nemmeno dai suoi discepoli (cf. Gv 12,16). 

3Il racconto si compone di undici scene, ognuna situata in uno dei diversi luoghi in cui Gesù  è stato trascinato dai suoi persecutori. Al centro sta la scena (la sesta) dell’incoronazione di spine,  che nella passione giovannea è il vertice della rivelazione dell’identità di Gesù (cf. Gv 19,1-3). Gesù  è stato flagellato come uno schiavo e i soldati si accaniscono contro di lui. Per smentire la sua pretesa  regale, gli mettono sul capo una corona di spine, che lo trafiggono e lo sfigurano, e lo rivestono di un manto di porpora come quello dei re della terra. Questa intronizzazione prevede l’omaggio dei  sudditi e i soldati dunque si prostrano a lui e gli fanno doni mentre, dandogli schiaffi, così lo salutano:  “Salve, Re dei giudei!” (Gv 19,3). È una scena oggettivamente di derisione, una parodia, ma nel  vangelo secondo Giovanni è vera epifania, perché in essa è rivelata la vera regalità di Gesù, servo  del Signore e vittima innocente del male del mondo.



Ora, nella massima manifestazione dell’amore di Dio, ritorna  il tentativo di attribuirgli la regalità, ma in un modo drammatico e  paradossale. 

Mi sembra di cogliere che la prospettiva della “regalità” sia il  filo conduttore di tutta la narrazione della passione e che merga  negli episodi e nei dialoghi soprattutto tra le autorità politiche e  religiose. 

Il dramma regale inizia quando i capi dei giudei hanno ormai  consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a  morte come malfattore, dato che a loro questo non è concesso (cf  18,31). Pilato fa chiamare Gesù e lo interroga, in modo improvviso  e inatteso su ciò che più gli interessa, come si vedrà in seguito: “Sei  tu il Re dei giudei?” (v. 33); sarebbe a dire: “Tu vanti un potere  politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può  essere un capo d’accusa determinante per la condanna a morte, la  lesa maestà, un attentato al potere imperiale romano, un’insidia  per Cesare.  

Come spesso nel racconto giovanneo, Gesù non risponde  direttamente, ma ponendo egli stesso domanda per smascherare  se il potere che rappresenta sia di facciata o reale (cf v. 34). 

Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce  da una sincera mozione interiore di conoscere la “verità” su Gesù? Spesso il potere utilizza il “sentito dire” per accusare e  condannare; anche nella religione non sempre si arriva ad una vera  esperienza personale di fede. 

Da qui l’ipocrisia di Pilato e la sua pusillanimità si manifesterà  sempre di più: “forte con il debole, e debole con i forti”. Si nasconde dietro alla sua estraneità all’etnia ebraica per  nascondere il suo condizionamento ai capi dei giudei. Ancora una volta i poteri “si coprono” a vicenda nelle loro  trame e malefatte contro gli innocenti! 

Alla nuova domanda: “Che cosa hai fatto per poter essere da  loro incolpato, quale delitto contro la Legge mosaica hai  commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il regno, quello  mio, non è mondano” (v. 36) 

Può essere superfluo descrivere quali siano da allora a oggi i  “poteri mondani”, e le diverse forme di oppressione che  esercitano; Gesù annuncia un “regno” diverso che si rivelerà  proprio nel corso della sua sofferenza fino alla croce, manifestando  anche la sua vera messianicità. 

Ma a Pilato interessa che Gesù si “identifichi” dichiarandosi  Re per poterlo così condannare; si ritiene “protagonista” e  detentore della sua sorte in base al potere che, ipocritamente, gli  viene riconosciuto in questo caso dalle autorità giudaiche,  viceversa a lui avverse. 

Dunque tu sei re?” (v. 37). 

La replica di Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per essere re sono  nato e sono stato inviato in questo mondo per testimoniare la  Verità” (v. 37b).

Ecco il punto cruciale: la Verità su di sé è quella su Dio stesso;  sull’essere umano e su Pilato stesso, su un potere mondano,  politico e religioso, che “strumentalizza” la Verità privando della  libertà: ogni uomo che è chiamato a essere figlio di Dio, libero, “la  Verità vi farà liberi” (cf 8,28).  

Una Verità che deve essere “realizzata”, da ogni donna (cf v.  3,21) testimone della Verità del Padre, che ha tanto amato  l’umanità da consegnare suo Figlio (cf 3,16) e che Pilato,  rappresentate di un potere che esprime il lato peggiore  dell’umanità non riesce a comprendere come merge dalla  domanda finale, e che rimane sospesa -purtroppo censurata dalla  proclamazione liturgica- : “Che cos’è la Verità?” (v. 38). 

Ora noi possiamo invece chiederci: “Chi è la Verità e chi la  compie davvero!”. 

Nella teologia di Giovanni la Verità è innanzitutto “Vita”, che  il Figlio comunica donando se stesso e amando fino alla morte,  dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo  ascoltano (vedi gli studi di I. DE LA POTTERIE e di D. MOLLAT su Verità e Vita nel vangelo di Giovanni). 

Ecco dunque la realtà di cui Gesù parla e che rappresenta: Lui  è l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata.  Questa regalità è presentata dall’evangelista nella narrazione  e negli atteggiamenti di Gesù: Egli è il vero “padrone” della sua vita  che nessuno può strappargli ma che solo Lui può donare (cf 10,17- 18); è il protagonista di quanto avviene e non gli altri, mandanti ed  esecutori, che si illudono di gestirlo a loro piacimento,  mostrandolo inerme e indifeso; è l’essere umano “nudo” la cui  dignità e verità sta nell’essere “vivo”, senza paura o vergogna. È come se “dominasse” gli eventi, restando libero di parlare e  di agire solo per amore: regna con la stessa regalità con la quale  regna Dio, senza comandare!

“E se c’è un’ora in cui il “regno di Dio” è venuto, è stato  in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora  della passione e della croce. 

Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo  annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei,  proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in  lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. 18,38; 19,4.6);  poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. 19,1), lo presenta a tutti  con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5)”.  

Pilato però durante quell’interrogatorio ha paura, e  quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di  Dio, “ha ancor più paura” (cf. 19,7-8).  

I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno  dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù  “hanno paura”, perché Gesù indifeso, inerme, mite, povero,  innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto  l’universo”. 

È il terrore delle autorità giudaiche che sobillano la folla e che  rifiutando la signoria/regalità del Nazareno come Figlio del Padre,  Dio (cf 5,28), si prostituiscono (cf 8,41-42) all’imperatore romano che tanto odiano, fino alla bestemmia: “Non abbiamo altro re  all’infuori di Cesare” (19,15). 

Finché, quando Gesù sarà in croce, il cartello voluto da Pilato  nelle tre lingue dell’ekumène – ebraico, greco e latino – proclamerà paradossalmente la verità: “Gesù Nazoreo è il re dei  giudei” (cf 19,19). “Ognuno, nella sua lingua confessa: Gesù è  Kýrios [Cesare]” (Filippesi 2,11).

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