“LE PAROLE… LA PAROLA”
11 aprile 2021 - II domenica di Pasqua
Giovanni 20,19-31 - La beatitudine di chi crede
Atti apostoli 4,32-35 / Salmo 117 / 1Giovanni 20,19-31
Giovanni 20,19-31
Saper guardare bene per “vedere”.
Gli apostoli vedono ora quelle “mani” e quel “costato” che si erano rifiutati di guardare allora, quando Gesù veniva crocifisso (cf 19,35-37).
Adesso Lui è lì, piombato in mezzo a loro, ed ha una sola parola per loro: “Pace a voi!” (20,19). Un saluto che li riempie di gioia (cf v. 20b) e che vince l’iniziale chiusura e paura e che, la seconda volta (cf v. 21), diventa addirittura un mandato, una missione.
Ma com’è possibile questa trasformazione in così poco tempo e sembra anche senza nessuna fatica per loro?
“Ricevete lo Spirito” (v. 22), fonte di una vita nuova riconciliata e pacificata, offerta a tutti; “lo Spirito della Verità” che guida in una nuova comprensione di Gesù, delle sue parole, fa entrare nella verità tutta intera (cf 16,13-15).
Anche a noi il Risorto si manifesta con i “segni” compiuti da Lui, gli stessi “in presenza dei suoi discepoli” (v. 30) e lo fa sempre “otto giorni dopo”, come con Tommaso (cf. vv. 26-29).
Nessuno di noi è figlio unico
Tommaso è l’apostolo pronto a morire con Gesù (cf 11,16) eppure dichiara di non sapere dove Egli vada (cf 14,5) e rappresenta la lenta progressione dei discepoli nel credere in Gesù.
Nominato sette volte nel racconto evangelico è chiamato qui “didymos = gemello”, conosciuto anche come “idoneo secondo”1, infatti solo a lui tra gli Undici, dopo Simon Pietro, Gesù si manifesta risorto (in 21,2 è citato al secondo posto).
Essendo “uno dei Dodici” acquista quasi un duplice ruolo: fa da “cerniera” con le successive generazioni di cristiani, anche con i lettori di questo racconto evangelico, e si trova nell’ultimo episodio della prima versione redazionale.
Possiamo quindi dire che è quello che più assomiglia a noi, quindi “nostro gemello”, nostro contemporaneo, quasi un esistenzialista… un pessimista coraggioso. Per lui il peggio è sempre la cosa più sicura. Tutto il suo coraggio è “per la morte”, non sa aver fiducia”.
Anche per noi a volte, la disperazione nel dolore è la pietra più sicura su cui poggiarci, affinché nulla cambi per iniziare a sperare “credendo” (= roccia stabile) nella risurrezione. Essere morti, fa meno male che essere vivi!
Quanti reduci di guerra vivono la loro condizione di sopravvissuti, come in tremende sciagure o atti terroristici, quasi scusandosi di non essere morti con i loro compagni: essere ancora vivi può far soffrire di più, come fosse una colpa da espiare e non un’opportunità! “Per fortuna il Signore conosceva Tommaso!”.2
Anche il fatto che “non fosse con [i discepoli] quando venne Gesù” (v. 24) attesta o la sua spavalderia di andarsene in giro mentre gli altri se ne stavano chiusi in casa “per timore dei Giudei” (v. 19)3, o la sua distanza dalla comunità. In qualche modo “rappresenta la figura di colui che non dà retta alla testimonianza
1 Vedi “Atti di Tommaso, 39”, da Gesù stesso riconosciuto come “idoneo secondo” (frammento Copto 2,6,2). Si può anche tradurre come “doppio/duplice/duplicato”, anche nel senso di “Giano bifronte”.
2L. EVELY, Il vangelo della gioia, Assisi 1968, pp. 91-103.
3 Vedi anche Vangelo di Pietro, 7,26.
della comunità”4, o chiunque sollevi obiezioni all’annuncio del kerygma in quanto non presente nel cenacolo.
Le persone identificate con un “nome proprio” nel racconto giovanneo quasi sempre sono “figure della fede” che rappresentano diversi atteggiamenti o modalità di dare un’adesione a Gesù come “Figlio del Padre”.
In questo senso Tommaso è sempre citato in relazione alla morte risurrezione di Gesù e quindi rappresenta il processo di fede pasquale anche della comunità cristiana, nella fatica di chi vuole porre le condizioni e quasi stabilire l’andamento del percorso.
“Se non vedo i segni”
Ma quali sono “i segni del Risorto”5?
Non sono solo quelli della sua morte, le ferite della crocifissione (cf v.25b.27a) o della sua risurrezione, il sepolcro aperto ma vuoto e i teli insanguinati (cf 20,1.5-7).
Essi non ci parlano di Lui, finché Egli, non irrompe in mezzo, in piedi, come “il Vivente” (cf Ap 1,17-18), e trasmette il suo
4J. MATEOS – J. BARRETO, Il vangelo di Giovanni, Assisi 20004, p. 829.
5 Nell’esperienza pasquale del Risorto e della sua risurrezione hanno un ruolo fondamentale “i segni” compiuti da Gesù, che secondo la “prima conclusione” del racconto evangelico di Giovanni (cf 20,30-31) sono stati “molti” fatti da lui “in presenza dei suoi discepoli”. Certo ci si riferisce ai “sette segni” che costellano e scandiscono questo vangelo, tanto da potersi considerare un “libro”. (Vedi B. MAGGIONI, I Vangeli, Assisi 2008, pp.162-1627). Ciò che però è essenziale è il loro scopo, secondo l’intenzione dell’evangelista che di sicuro ha capito quella del Nazareno stesso: “credere” (cf 2,11.23; 3,18) che vuol dire “venire a Lui per avere da Lui la Vita” (cf 5,40) che è Lui stesso e che noi possiamo ricevere solo da Lui come un dono, perché Egli l’ha veramente donata (cf 1,4; 3,15.16). Quindi i segni hanno un valore e una funzione “vitale”: sono vivi e vivificano (cf 3,5-7; 4,13-14; 6,63; 7,37-38) come è stato per il malato alla piscina di Betzatà (cf 5,1-9), ma lo sono anche “molti altri”. Quali? Li indica proprio Tommaso nel suo incontro con il Risorto (cf 20,24-29): le ferite della crocifissione. Questi sono il “segno permanente” che rimangono perché la fede del cristiano non sia un’operazione esoterica, ma reale, fisica, tattile… perché questa è la funzione del segno, indicare ma anche far sperimentare. Questo l’evangelista lo dirà subito scrivendo alle sue comunità (1Gv 1,1- 4): la Parola che è Luce e Vita, quindi energia vitale, si può ascoltare - vedere – toccare e infine anche comunicare, proprio come ha fatto lui. I “segni del Risorto” non si riferiscono alla risurrezione ma al suo essere “il Vivente” (cf Ap 1,17-18) che continua a comunicare Vita.
“respiro”, soffiandolo in noi (cf 20,22) come Dio fece col primo Adam (cf Gn 2,7).
Solo persone, “create nuove” dal suo Spirito, possono riconoscere nel crocifisso il Risorto, accogliere il dono della sua “Pace” come impegno per tutti di costruire un mondo nuovo, che parta da un modo nuovo, riconciliato di vivere nel perdono ricevuto e donato.
“Per Giovanni [in tutta la sua opera] è l’amore quel che rende l’uomo un essere vivente”.6
Uomini e donne interiormente rigenerati potranno dar vita a nuove relazioni (“nuova giustizia” evangelica cf Mt 5,20- 7,28), ad un mondo nuovo, alla “civiltà dell’amore” di cui vi fa parte chi ama e non chi pretende un’appartenenza etnica o religiosa. Una società senza frontiere e condizionamenti dal passato, aperta al presente e protesa verso il futuro.
“Il mondo non penserà più a questo crocifisso, ma i discepoli lo vedranno vivo, risorto e glorioso”7.
“Non essere incredulo”… ma nemmeno credulone!
Gesù, infatti, non giudica né biasima la pretesa di Tommaso e le sue motivazioni, anzi si dimostra disponibile, non a dargli uno smacco di fronte agli altri discepoli, ma cogliendo quest’occasione per dire a tutti, presenti e futuri, che anche le ferite possono diventare “feritoie”8 attraverso le quali non solo il Risorto può far giungere noi la sua luce, ma anche noi possiamo “vedere” e “credere” all’amore che lo ha spinto fino a tanto (cf 15,13).
Ecco, Tommaso si è sentito “amato” non giudicato per non essere andato alla morte con il Maestro (cf 11,16) o aver perso la
6 A. MAGGI, La follia di Dio, Assisi 20184, p. 196.
7 A. NOCENT, op. cit. / 4. Tempo pasquale, pp. 131-137.
8 Un’espressione spesso usata dal vescovo G. M. Bregantini (14 aprile 2012) e attribuita al vescovo Tonino Bello.
“via di casa” (cf 14,5), nemmeno per la sua assurda pretesa di “toccare” e, infatti, rimane spiazzato dalle parole e dai gesti di Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”.
Infatti, sono le parole di Gesù che costituiscono il vero punto di svolta dell’episodio, prima e più di qualunque altro gesto. Gli rivolge la sua parola che dà voce alle sue pretese prima manifestate ai compagni. È sempre così nel racconto di Giovanni: la parola di Gesù “apre” l’interlocutore alle fede in Lui, così è stato all’inizio per Nicodemo, poi per la Samaritana e alla fine con Pietro. La parola produce questo effetto perché “apre uno spazio” di accoglienza in ogni persona che Lo avvicina.
Anzi, tale deve essere stata la sua felicità condivisa già dai suoi compagni (cf v. 20b), da far proclamare al Risorto per noi una beatitudine finora inedita, come tale è stata la professione di fede da parte di Tommaso: “Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto” (v. 29b).
Se coloro che hanno avuto la possibilità di “vedere” non sono stati capaci di riconoscerlo subito, da Maria di Màgdala e Sion Pietro (cf 20,1.5.8.12.14.25b; 21,4), finché Lui non si manifestò con i suoi “segni” (cf vv. 20.25a.27; 21,7.12b), e quindi hanno faticato per arrivare a “credere” (cf v. 27c), sarà più facile per noi che invece vediamo “altri segni che non sono stati scritti” (v. 30b)?
La risposta è nella nostra esperienza personale e comunitaria di credenti: è stato così e sempre lo sarà fino a che “Egli non sarà manifestato [e noi] lo vedremo come lui veramente è” (1Gv 3,1-3).
È tuttavia impressionante come spesso noi cediamo ad esperienze religiose “esteriori” o solo emotive, oppure ci barrichiamo dietro formule e concetti teologici preconfezionati, senza la pazienza di un ascolto interiore vero, profondo che permetta alla parola divina di agire.
Nessuno crede solo per sé
Ma noi siamo “beati” perché abbiamo queste testimonianze (cf 21,30) la cui verità sta nella nostra comunione con loro, che ci scrivono, possibile perché “è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” fonte di una “gioia piena” rispetto a quella promessa da Lui già donata ai suoi (cf 1Gv 1,3-4 e Gv 16,22-23; 17,13; 20,20b).
“Ora non solo per questi chiedo, ma per quelli che crederanno in me per la loro parola, affinché tutti siano uno: come tu Padre in me e io in te, anch’essi siano uno in noi, affinché il mondo creda che tu mi mandasti” (17,20-21)9.
Queste parole ci aiutano a comprendere “il di più” di gioia e di vita nel vedere e nel credere che Gesù promette a noi, in continuità con quanto comunicato e manifestato ai suoi.
Tommaso accompagna anche noi, pur sempre increduli (ma meglio che creduloni!), in un percorso che ci aiuta a superare una fede ingenua per “diventare credenti” (cf v. 27c), capaci di professare che Dio è “quel Gesù, crocifisso e risuscitato… costituito Signore” (cf At 2,23-24.32-36).
Credere insieme
L’esperienza di Tommaso ci aiuta a dar senso e valore a quei “segni” che fin dall’inizio accompagneranno il cammino di fede delle prime comunità cristiane, e oggi ancora anche il nostro: parola ed eucaristia.
Anche noi, nella celebrazione liturgica, possiamo fare la stessa esperienza di Tommaso: proprio perché la parola del Signore risorto è rivolta a noi essa ci illumini, ci conosce perché è la verità di noi stessi e permette a noi di riconoscere Lui, di incontrarlo entrando attraverso il sacramento in un “contatto fisico” con Lui.
9 Questo testo fa parte dell’ultimo dei “discorsi post pasquali” collocati dal redattore finale a conclusione della cena pasquale, prima della passione e morte, nel cosiddetto “libro della gloria” (cc. 13,1-20,31) E. BORGHI, op. cit., pp. 176- 205.
“Otto giorni dopo” (v. 26) è la scansione settimanale che ci appuntamento con il Risorto, e costituisce il punto di incontro con Lui, visto e toccato, ma che abbiamo cercato lungo tutto il nostro percorso di fede, dal punto più lontano del dubbio o dell’incredulità a quello più vicino della confessione in Lui.
Con quale pretesa la Chiesa può utilizzarli per annunciare la Risurrezione del Signore? Solo con la forza dello Spirito del risorto invocato (vedi la seconda epiclesi delle preci eucaristiche).
Nel quarto vangelo la fede è o suscitata dal “segno” oppure ne è l’effetto10. Questo avviene anche per la vita sacramentale offerta dalla Chiesa. Per essere trasformati e vivere nel Cristo occorre “credere in Lui” (cf 9,35-38; 11,26) che ci tende la mano, ci viene incontro, per farci entrare nella realtà che quei segni offrono11.
Anche noi ascoltiamo, leggiamo quello che è stato scritto affinché possiamo anche noi “credere” (cf 2,11.23; 3,18; 20,30-31) che vuol dire “venire a Lui per avere da Lui la Vita” (cf 5,40).
10 Vedi 2,11; 5,54; 11,45; 12,37.
11 A. NOCENT, op. cit., p. 257.
Buona domenica don Roberto. Alba quasi buia fino ad un certo punto, poi anche le nuvole hanno aperto un varco...luce abbagliante.
RispondiEliminaAspettavo un bellissimo commento al vangelo di oggi.
È un commento densissimo, da smontare per far tesoro di ogni spunto.
Grazie
Oggi è perfetto ��������
La risposta del Risorto è nella nostra esperienza personale e comunitaria...Grazie, Roberto! Buona domenica a tutti!����
RispondiEliminaGrande e profonda è la riflessione che queste parole ci invitano a fare guardando dentro di noi per avere lo sguardo verso il risorto perché diventi compagno inseparabile. Grazie e buona serata
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