lunedì 8 marzo 2021

Giovanni 2,13-24 Il segno del “nuovo Tempio”: il corpo del Risorto

 Giovanni 2,13-24 

Il segno del “nuovo Tempio”: il corpo del Risorto 




Pasqua: un passaggio radicale 

La festa di Pasqua dei Giudei si avvicinava  

e Gesù salì a Gerusalemme”. 

Una caratteristica del racconto evangelico di Giovanni, che lo  distingue nettamente dagli altri cosiddetti sinottici, è la scansione  del ministero messianico di Gesù in tre anni, scanditi dalla  celebrazione annuale della Pasqua: 2,13 / 6,4 / 11,55 (13,1). 

È la “Pasqua del Signore” (Esodo 12,11.48; Levitico 23,5;  Numeri 9,10.14), ma l’evangelista la chiama “dei Giudei”, anzitutto  per distinguerla da quella dei Samaritani che si celebrava in una  ritualità e una data differenti1, ma è come se volesse dire che ormai  i capi giudei se ne erano impossessati per mantenere il loro potere  a scapito del popolo. Utilizzavano la celebrazione della liberazione  dalla schiavitù per accrescere le loro entrate economiche e  sfruttare la gente2

Gesù rimane a Gerusalemme per tutta la festa e così: “Molti  avevano visto i segni che operava e credettero in Lui” (2,23). Questa osservazione conclusiva, quasi di passaggio, (v. 23) ci  riferisce a quella precedente in 2,11 riguardo alla prodigiosa  trasformazione dell’acqua in vino alla festa nuziale di Cana di  Galilea (2,1-12). Dunque, pensiamo che Gesù, entrando nel cortile  del Tempio, stia per compiere un altro “segno”, successivo a quello  laico e domestico “segno delle nozze”, in un luogo ritenuto il più  sacro di tutto il pianeta e che, a differenza di Cana susciterà solo  successivamente un’adesione di fede (cf 2,18.20.22) e  un’opposizione e un rifiuto da parte delle autorità religiose che  

1 Baste cercare sul web “Pasqua dei Samaritani” per avere una dettagliata informazione di come  ancor oggi viene da loro celebrata in modo cruento e spettacolare. 

2 Vedi la descrizione molto efficace di A. MAGGI, La follia di Dio, p. 36.


caratterizzeranno poi tutta la narrazione di Giovanni (cf capp. 5; 7;  8). 

Pasqua: un ribaltamento di prospettiva 

Ciò che avviene nel cortile interno è narrato anche dai  sinottici nella Pasqua, alla vigilia della sua passione e morte, ma in una prospettiva escatologica, e dove i diversi elementi sono  dispersi in diversi momenti (Matteo 21,12-17.23; 26,59-11; Marco 11,15-19.27-28; Luca 19,45-48; 20,1-2) senza il carattere unitario  che gli dà Giovanni. 

L’atteggiamento di Gesù descritto dagli evangelisti richiama  quello dei profeti, rammentato anche dai discepoli (cf 2,17),  spesso in polemica con il culto celebrato nel Tempio ritenuto  inquinato e non genuino, alimentando l’attesa di una sua  “purificazione messianica”. Così leggiamo in Malachia 3,1-4 e  Zaccaria 14,21, testo che Gesù stesso cita a memoria mentre  caccia tutti fuori, persone e animali, rovesciando i banchi dei  cambiavalute. 

Quest’ultimo è un elemento da tenere bene in  considerazione: occorreva cambiare la moneta ufficiale con quella  del tempio [“di Tiro”] per apparenti motivi religiosi: quella che  portava l’effige dell’imperatore romano, un pagano, era un  elemento sacrilego. Tuttavia il cambio avveniva con una “frode” di  svalutazione, e poi una volta usciti non aveva più nessun valore  commerciale, così si rimaneva defraudati due volte! Ecco il  mercimonio che Gesù denuncia violentemente (cf Isaia 1,11.13;  Amos 5,21-23). 

Ma ciò che sorprende soprattutto, oltre i gesti violenti, sono  le parole rivolte ai venditori di colombe: “Non fate della casa del  Padre mio un luogo di mercato” (16,b): lo Spirito di Dio che tutto  anima e riconcilia, è offerto per denaro! 

Il “flagello”, invocato dai profeti stessi contro i peccatori (Isaia 10,26), è usato da Gesù contro i banchieri del Tempio che ne  

avevano fatto un centro finanziario e di commercio, di fatto  profanandolo (cf 2Maccabei 3,6). Sarà usato sul corpo di Gesù  stesso dai soldati romani per ordine di Pilato (Gv 19,1). 

Ora è ben chiaro che non si tratta di una “purificazione”, ma  di una “distruzione” che deve permettere una vera e propria  sostituzione del santuario e di tutto il regime religioso che esprime  e di cui fa parte il Tempio (cf Geremia 7,11.14). 

Pasqua: una novità assoluta 

Un radicale cambiamento sta avvenendo, anzi è già stato  inaugurato, iniziato con il primo “segno”, la trasformazione  dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cf 2,11): dall’acqua della  Toràh al vino del Vangelo3

Ora esplode con l’eliminazione della prima opera a cui Mosè  aveva messo mano dopo l’alleanza (cf Esodo 25,8). Un altro segno di quanto era già stato annunciato: “Nessuno  ha mai visto Dio, il Figlio ce lo ha fatto conoscere” perché “Il Verbo  si è fatto carne… e noi abbiamo visto la sua gloria, quella di  Unigenito dal Padre, pieno di amore gratuito e di verità” (1,18.14). Lo notano infatti i capi dei giudei che proprio su questo lo  interrogano: “Che segno ci mostri per fare queste cose” (2,18). A cosa si riferiscono? Semplicemente allo sconvolgimento  delle loro usanze cultuali? Al disordine creato da Gesù, quasi una  profanazione del “luogo sacro”? O non piuttosto per l’arrogarsi la  signoria su quel luogo ritenendolo “casa del Padre” e quindi anche  sua, rivendicandone il suo rapporto esclusivo! 

Tale richiesta ci conduce alla prospettiva tipica di Giovanni  che chiama “segni” quelli che gli altri racconti evangelici  definiscono miracoli o prodigi; la sua originalità percorre infatti  tutto il suo racconto, così da far individuare nei capitoli 2-12 un  vero e proprio “Libro dei Segni”4

3 Vedi E. BORGHI, Il cammino dell’amore, pp. 53-62. 

4 B. MAGGIONI, Il vangelo di Giovanni, pp. 1620-1627.


Anche in Marco 8,11 viene chiesto a Gesù un segno e fin  dall’inizio ci si interroga sull’autorità con cui il Nazareno parla e  agisce (cf 1,27), tuttavia Giovanni vuole aprire una prospettiva  nuova: tutto è segno di Lui! Qui lo è il Tempio, che sarà ripreso  dallo scritto Agli Ebrei, come prima lo sono stati lo sposo e il vino  delle nozze, e poi lo saranno l’acqua, la luce, il pane, la vite… 

Sono “le opere del Padre che Gesù compie” (10,30-42), ed esse  sono “segni” attraverso i quali Egli comunicherà la Vita che è (1,4),  restituendola come amore a chi l’ha perso (cap. 4), salute a chi è  infermo (cap. 5), pane a chi è affamato (cap. 6), luce a chi è nelle  tenebre (cap.9), risurrezione a chi è morto (cap. 11). 

Donare la Vita è “il segno” della Verità che liberi (8,32). Le polemiche riguardo proprio alle opere di Gesù ed al suo  rapporto con il Padre diventeranno sempre più accese nel corso  del racconto evangelico, soprattutto nei capitoli 7 e 8. Qui già  emerge in anticipo l’incapacità delle autorità religiose giudaiche di  anche solo immaginare un rapporto con Dio diverso da quello della  loro tradizione mosaica. 

Pasqua: Festa senza Tempio 

Le dichiarazioni di Gesù sulla distruzione del Tempio ci  riportano anzitutto all’opposizione che la comunità di Qumràn  aveva verso tutto l’apparato cultuale giudaico a Gerusalemme e il  progressivo abbandono da parte della prima comunità cristiana di  queste liturgie. 

Già gli Esseni sostenevano che “il vero Tempio” è la comunità  e che il culto autentico sono la vita santa in comune, la preghiera  e l’osservanza interiore della Toràh. 

Gli influssi sui primi cristiani si notano in molte lettere  apostoliche: Romani 12,1-11; 2Corinzi 6,14- 7,1; 1Corinzi 3,10-23;  Efesini 2,18-22; 1Timoteo 3,15; 1Pietro 2,3-6; Ebrei 12,18-24;  Apocalisse 21,9-11. 22-27, 22,1 dove però il superamento della  funzione esercitata dal Tempio è definitivo.


Gesù è “l’Agnello di Dio” (cf 1,29.35) che, entrando nel  Tempio ne annuncia la sua totale inutilità perché non siamo più noi  a dover offrire qualcosa Dio per meritarci la benevola  considerazione, ma è il Padre che offre il Figlio. 

Egli si spinge anche oltre: la “distruzione” della struttura sacra  diventa “segno del suo corpo” donato e crocifisso, il vero tempo è  il suo corpo, non solo fisico, ma come “persona” nella quale si  compie la vera e definitiva Pasqua nella sua morte e risurrezione. 

Ora, soprattutto dopo la distruzione definitiva del Tempio  nell’anno 70 d. C, questa convinzione della chiesa primitiva è ben  presente anche in Giovanni. Qui si capisce quello che egli annota  “Quando risorse dai morti, i suoi discepoli ricordarono [e  compresero] quanto aveva detto” (2,22). 

Il risorto è “il-Dio-con-noi” e noi “riuniti nel suo nome” siamo  il luogo della sua stabile dimora, il nuovo santuario (cf Matteo  18,20). L’evangelista infatti non dice che dopo la distruzione lui lo  ricostruirà, ma che lo farà “risorgere in tre giorni” (v. 19), un breve  tempo che per i primi cristiani è riferito alla passione-morte 

risurrezione. 

Il Cristo crocifisso e risorto esaurisce ormai il Tempio come  luogo della kabòd, dimora divina e dell’adunanza del popolo:  “Quando sarò innalzato attirerò tutti a me” (12,33). Questo  compimento hanno comprenderanno i discepoli e i credenti nel  futuro… ma non troppo, presto noi cristiani lo abbiamo  dimenticato! 

Se leggiamo Apocalisse 21,9-11. 22-27, 22,1 ci chiediamo  come si possa adorare Dio senza un tempio. “I discepoli non lo  capiscono e comprenderanno queste cose solo alla risurrezione  del Cristo (Gv 2,22). La samaritana ci arriverà molto prima (4,21- 26). Per ora Gesù non è capito da nessuno”. 

È il nuovo patto che si salda nel più intimo del nostro processo  vitale di morte-vita, dove non esiste separazione tra  

“sacro/profano”, senza confini o timori di invasioni: Lui in noi e noi  in Lui. 

L’Amore suo in noi fa scaturire, dove prima era irraggiungibile  da attingere nell’intimo di noi stessi, il vero culto “in spirito e  verità”, un dialogo dove ciascuno, riconoscendosi amato davanti al  “Sono Io che parlo con te”, diventa un “Tu” capace di risposta  piena.


2 commenti:

  1. Se la persona di Gesù è il Segno presente sempre, perché sempre si dona, allora è lui che dobbiamo cercare e seguire.
    Il risorto è “il-Dio-con-noi” e noi “riuniti nel suo nome” siamo il luogo della sua stabile dimora, il nuovo santuario (cf Matteo 18,20).
    Uno "spazio sacro" dove Dio ama e si fa trovare è proprio in quel "noi", è lì che chiede di amarlo e di lasciarci amare.
    Grazie don Roberto

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