Giovanni 2,13-24
Il segno del “nuovo Tempio”: il corpo del Risorto
Pasqua: un passaggio radicale
“La festa di Pasqua dei Giudei si avvicinava
e Gesù salì a Gerusalemme”.
Una caratteristica del racconto evangelico di Giovanni, che lo distingue nettamente dagli altri cosiddetti sinottici, è la scansione del ministero messianico di Gesù in tre anni, scanditi dalla celebrazione annuale della Pasqua: 2,13 / 6,4 / 11,55 (13,1).
È la “Pasqua del Signore” (Esodo 12,11.48; Levitico 23,5; Numeri 9,10.14), ma l’evangelista la chiama “dei Giudei”, anzitutto per distinguerla da quella dei Samaritani che si celebrava in una ritualità e una data differenti1, ma è come se volesse dire che ormai i capi giudei se ne erano impossessati per mantenere il loro potere a scapito del popolo. Utilizzavano la celebrazione della liberazione dalla schiavitù per accrescere le loro entrate economiche e sfruttare la gente2.
Gesù rimane a Gerusalemme per tutta la festa e così: “Molti avevano visto i segni che operava e credettero in Lui” (2,23). Questa osservazione conclusiva, quasi di passaggio, (v. 23) ci riferisce a quella precedente in 2,11 riguardo alla prodigiosa trasformazione dell’acqua in vino alla festa nuziale di Cana di Galilea (2,1-12). Dunque, pensiamo che Gesù, entrando nel cortile del Tempio, stia per compiere un altro “segno”, successivo a quello laico e domestico “segno delle nozze”, in un luogo ritenuto il più sacro di tutto il pianeta e che, a differenza di Cana susciterà solo successivamente un’adesione di fede (cf 2,18.20.22) e un’opposizione e un rifiuto da parte delle autorità religiose che
1 Baste cercare sul web “Pasqua dei Samaritani” per avere una dettagliata informazione di come ancor oggi viene da loro celebrata in modo cruento e spettacolare.
2 Vedi la descrizione molto efficace di A. MAGGI, La follia di Dio, p. 36.
caratterizzeranno poi tutta la narrazione di Giovanni (cf capp. 5; 7; 8).
Pasqua: un ribaltamento di prospettiva
Ciò che avviene nel cortile interno è narrato anche dai sinottici nella Pasqua, alla vigilia della sua passione e morte, ma in una prospettiva escatologica, e dove i diversi elementi sono dispersi in diversi momenti (Matteo 21,12-17.23; 26,59-11; Marco 11,15-19.27-28; Luca 19,45-48; 20,1-2) senza il carattere unitario che gli dà Giovanni.
L’atteggiamento di Gesù descritto dagli evangelisti richiama quello dei profeti, rammentato anche dai discepoli (cf 2,17), spesso in polemica con il culto celebrato nel Tempio ritenuto inquinato e non genuino, alimentando l’attesa di una sua “purificazione messianica”. Così leggiamo in Malachia 3,1-4 e Zaccaria 14,21, testo che Gesù stesso cita a memoria mentre caccia tutti fuori, persone e animali, rovesciando i banchi dei cambiavalute.
Quest’ultimo è un elemento da tenere bene in considerazione: occorreva cambiare la moneta ufficiale con quella del tempio [“di Tiro”] per apparenti motivi religiosi: quella che portava l’effige dell’imperatore romano, un pagano, era un elemento sacrilego. Tuttavia il cambio avveniva con una “frode” di svalutazione, e poi una volta usciti non aveva più nessun valore commerciale, così si rimaneva defraudati due volte! Ecco il mercimonio che Gesù denuncia violentemente (cf Isaia 1,11.13; Amos 5,21-23).
Ma ciò che sorprende soprattutto, oltre i gesti violenti, sono le parole rivolte ai venditori di colombe: “Non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato” (16,b): lo Spirito di Dio che tutto anima e riconcilia, è offerto per denaro!
Il “flagello”, invocato dai profeti stessi contro i peccatori (Isaia 10,26), è usato da Gesù contro i banchieri del Tempio che ne
avevano fatto un centro finanziario e di commercio, di fatto profanandolo (cf 2Maccabei 3,6). Sarà usato sul corpo di Gesù stesso dai soldati romani per ordine di Pilato (Gv 19,1).
Ora è ben chiaro che non si tratta di una “purificazione”, ma di una “distruzione” che deve permettere una vera e propria sostituzione del santuario e di tutto il regime religioso che esprime e di cui fa parte il Tempio (cf Geremia 7,11.14).
Pasqua: una novità assoluta
Un radicale cambiamento sta avvenendo, anzi è già stato inaugurato, iniziato con il primo “segno”, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cf 2,11): dall’acqua della Toràh al vino del Vangelo3.
Ora esplode con l’eliminazione della prima opera a cui Mosè aveva messo mano dopo l’alleanza (cf Esodo 25,8). Un altro segno di quanto era già stato annunciato: “Nessuno ha mai visto Dio, il Figlio ce lo ha fatto conoscere” perché “Il Verbo si è fatto carne… e noi abbiamo visto la sua gloria, quella di Unigenito dal Padre, pieno di amore gratuito e di verità” (1,18.14). Lo notano infatti i capi dei giudei che proprio su questo lo interrogano: “Che segno ci mostri per fare queste cose” (2,18). A cosa si riferiscono? Semplicemente allo sconvolgimento delle loro usanze cultuali? Al disordine creato da Gesù, quasi una profanazione del “luogo sacro”? O non piuttosto per l’arrogarsi la signoria su quel luogo ritenendolo “casa del Padre” e quindi anche sua, rivendicandone il suo rapporto esclusivo!
Tale richiesta ci conduce alla prospettiva tipica di Giovanni che chiama “segni” quelli che gli altri racconti evangelici definiscono miracoli o prodigi; la sua originalità percorre infatti tutto il suo racconto, così da far individuare nei capitoli 2-12 un vero e proprio “Libro dei Segni”4.
3 Vedi E. BORGHI, Il cammino dell’amore, pp. 53-62.
4 B. MAGGIONI, Il vangelo di Giovanni, pp. 1620-1627.
Anche in Marco 8,11 viene chiesto a Gesù un segno e fin dall’inizio ci si interroga sull’autorità con cui il Nazareno parla e agisce (cf 1,27), tuttavia Giovanni vuole aprire una prospettiva nuova: tutto è segno di Lui! Qui lo è il Tempio, che sarà ripreso dallo scritto Agli Ebrei, come prima lo sono stati lo sposo e il vino delle nozze, e poi lo saranno l’acqua, la luce, il pane, la vite…
Sono “le opere del Padre che Gesù compie” (10,30-42), ed esse sono “segni” attraverso i quali Egli comunicherà la Vita che è (1,4), restituendola come amore a chi l’ha perso (cap. 4), salute a chi è infermo (cap. 5), pane a chi è affamato (cap. 6), luce a chi è nelle tenebre (cap.9), risurrezione a chi è morto (cap. 11).
Donare la Vita è “il segno” della Verità che liberi (8,32). Le polemiche riguardo proprio alle opere di Gesù ed al suo rapporto con il Padre diventeranno sempre più accese nel corso del racconto evangelico, soprattutto nei capitoli 7 e 8. Qui già emerge in anticipo l’incapacità delle autorità religiose giudaiche di anche solo immaginare un rapporto con Dio diverso da quello della loro tradizione mosaica.
Pasqua: Festa senza Tempio
Le dichiarazioni di Gesù sulla distruzione del Tempio ci riportano anzitutto all’opposizione che la comunità di Qumràn aveva verso tutto l’apparato cultuale giudaico a Gerusalemme e il progressivo abbandono da parte della prima comunità cristiana di queste liturgie.
Già gli Esseni sostenevano che “il vero Tempio” è la comunità e che il culto autentico sono la vita santa in comune, la preghiera e l’osservanza interiore della Toràh.
Gli influssi sui primi cristiani si notano in molte lettere apostoliche: Romani 12,1-11; 2Corinzi 6,14- 7,1; 1Corinzi 3,10-23; Efesini 2,18-22; 1Timoteo 3,15; 1Pietro 2,3-6; Ebrei 12,18-24; Apocalisse 21,9-11. 22-27, 22,1 dove però il superamento della funzione esercitata dal Tempio è definitivo.
Gesù è “l’Agnello di Dio” (cf 1,29.35) che, entrando nel Tempio ne annuncia la sua totale inutilità perché non siamo più noi a dover offrire qualcosa Dio per meritarci la benevola considerazione, ma è il Padre che offre il Figlio.
Egli si spinge anche oltre: la “distruzione” della struttura sacra diventa “segno del suo corpo” donato e crocifisso, il vero tempo è il suo corpo, non solo fisico, ma come “persona” nella quale si compie la vera e definitiva Pasqua nella sua morte e risurrezione.
Ora, soprattutto dopo la distruzione definitiva del Tempio nell’anno 70 d. C, questa convinzione della chiesa primitiva è ben presente anche in Giovanni. Qui si capisce quello che egli annota “Quando risorse dai morti, i suoi discepoli ricordarono [e compresero] quanto aveva detto” (2,22).
Il risorto è “il-Dio-con-noi” e noi “riuniti nel suo nome” siamo il luogo della sua stabile dimora, il nuovo santuario (cf Matteo 18,20). L’evangelista infatti non dice che dopo la distruzione lui lo ricostruirà, ma che lo farà “risorgere in tre giorni” (v. 19), un breve tempo che per i primi cristiani è riferito alla passione-morte
risurrezione.
Il Cristo crocifisso e risorto esaurisce ormai il Tempio come luogo della kabòd, dimora divina e dell’adunanza del popolo: “Quando sarò innalzato attirerò tutti a me” (12,33). Questo compimento hanno comprenderanno i discepoli e i credenti nel futuro… ma non troppo, presto noi cristiani lo abbiamo dimenticato!
Se leggiamo Apocalisse 21,9-11. 22-27, 22,1 ci chiediamo come si possa adorare Dio senza un tempio. “I discepoli non lo capiscono e comprenderanno queste cose solo alla risurrezione del Cristo (Gv 2,22). La samaritana ci arriverà molto prima (4,21- 26). Per ora Gesù non è capito da nessuno”.
È il nuovo patto che si salda nel più intimo del nostro processo vitale di morte-vita, dove non esiste separazione tra
“sacro/profano”, senza confini o timori di invasioni: Lui in noi e noi in Lui.
L’Amore suo in noi fa scaturire, dove prima era irraggiungibile da attingere nell’intimo di noi stessi, il vero culto “in spirito e verità”, un dialogo dove ciascuno, riconoscendosi amato davanti al “Sono Io che parlo con te”, diventa un “Tu” capace di risposta piena.
Grazie Don Geroldi.
RispondiEliminaSe la persona di Gesù è il Segno presente sempre, perché sempre si dona, allora è lui che dobbiamo cercare e seguire.
RispondiEliminaIl risorto è “il-Dio-con-noi” e noi “riuniti nel suo nome” siamo il luogo della sua stabile dimora, il nuovo santuario (cf Matteo 18,20).
Uno "spazio sacro" dove Dio ama e si fa trovare è proprio in quel "noi", è lì che chiede di amarlo e di lasciarci amare.
Grazie don Roberto