“LE PAROLE…LA PAROLA”
25 dicembre 2020 (Natività del Signore)
Giovanni 1,1-18
Volto
“Conosce veramente Dio solo chi accoglie il povero
che viene dal basso con la sua miseria,
e che proprio in questa veste viene inviato dall’alto;
non possiamo vedere il volto di Dio,
possiamo però sperimentarlo nel suo volgersi verso di noi quando onoriamo il volto del prossimo,
dell’altro che ci impegna con i suoi bisogni.
Il volto dei poveri. I poveri sono il centro del Vangelo”
FRANCESCO, 21 dicembre 2020
.
La nascita del Nazareno è ben raccontata nel vangelo di Luca 2,1-20 e proclamata nelle due celebrazioni: Notte (1-14) e Aurora (15-20). Il suo racconto ha ispirato per secoli fino ad oggi il nostro modo di celebrare il Natale, ed ha resistito anche nella nostra società secolarizzata e consumistica, ad esempio con l’allestimento del presepe.
Nel “Giorno” del Natale viene invece proclamato “il prologo” del racconto evangelico di Giovanni 1,1-18, un inno cristologico in cui di Gesù Cristo “non si dice tutto, ma apre su tutto”.
Della precedente narrazione apparentemente un po’ “romantica” non rimane nulla, come se durante il giorno si fosse sciolta la neve caduta nella notte.
Effettivamente la composizione giovannea dista alcuni decenni dopo quelle dei sinottici e più di 90 anni dopo i fatti narrati. Ormai le comunità cristiane sono presenti in quasi tutti i paesi su tutto il mediterraneo e l’originaria religiosità e cultura giudaico-palestinesi hanno incontrato quella ellenistica, e non solo.
Il centro della vita cristiana è il mistero della morte e risurrezione del Signore, e la celebrazione eucaristica il nucleo fondamentale della sua vitalità.
Ora si può parlare di Gesù anche in termini nuovi, finora inusuali, tipici dei filosofi, col rischio di rimanere al livello di qualche astrazione teoretica (sarà per questo che in alcune celebrazioni si preferisce legittimamente proclamare i brani lucani e non questo!).
Tuttavia, per capire meglio il prologo, occorrerebbe aver letto prima tutto l’intero racconto evangelico, infatti si sostiene che esso sia l’ultima parte scritta e posta all’inizio.
Nell’inno ricorrono alcuni termini e temi che poi verranno ripresi, sviluppati, approfonditi: parola, luce, vita, tenebre, gloria, grazia, verità… Sono qui concentrati in modo quasi enigmatico.
Ci sono commenti esaustivi su questo brano, io vorrei darne soltanto alcune chiavi ermeneutiche, che possano anche aiutarci a celebrare il Natale in modo più completo.
Anzitutto si parte dal principio (“In principio Dio…”, Genesi 1,1…). Nel nostro inizio, comunque noi siamo in grado di spiegarlo, non c’è il caos o il caso, e nemmeno la necessità… C’è un dia-logo, una relazione, una comunicazione: il Verbo, la Parola.
Ecco perché noi siamo esseri in relazione, e troviamo gusto e appagamento nella nostra esistenza se abbiamo rapporti significativi e gioiosi.
Se, quando ci interroghiamo sul senso dell’universo nel quale siamo immersi e sul significato della nostra storia, personale sociale, ci ponessimo in questa prospettiva, forse avremmo qualche elemento in più di comprensione.
Infatti Lui, il Verbo – Parola, non solo è rivolto verso Dio, ma è Dio stesso!
Alla fine Giovanni dirà che Dio è Amore (1Giovanni 4,8), perché noi sappiamo bene che l’amore è la relazione più forte che conosciamo e la più intensa forma di comunione e quindi di conoscenza tra di noi.
Se questa Parola comunica con Dio, è Dio stesso come Amore, allora ci dice solo una cosa: che noi siamo amati e che siamo felici solo amiamo! Questo la lettera lo spiega diffusamente.
Questa Parola è stata anche rivolta verso di noi, e la Scrittura lo testimonia in modo esaustivo così da diventare, anzitutto per il popolo di Israele, ma anche per tutti gli esseri umani, vita e luce.
Ancora di più, “tutto è stato fatto in questa modalità” e quindi si manifesta in relazione ed essa è l’unico modo che abbiamo di conoscere il mistero dell’esistenza e della vita, non solo sul nostro pianeta.
Tuttavia l’esperienza non è solo luminosa, ci sono anche tenebre, nelle forme più diverse anche drammatiche e terribili, ma esse non avranno mai il sopravvento definitivo sulla luce e sulla vita, e questo ci riempie di fiducia e di speranza.
La presenza della luce sembra scontata, ma non lo è in una ambiente mondano, che rifiuta la relazione e cerca solo l’autosufficienza e il potere, anzi paradossalmente “non riconosce che è luce”!
Eppure la luce viene proprio in questo mondo, che dovrebbe essere la sua casa, ma non è accolto se non da coloro che gli credono.
Questo atteggiamento è quello nevralgico in tutto il racconto evangelico: credere nel Figlio.
Alla nostra pretesa di “vedere per credere” si contrappone l’esperienza che “credendo si vede”. Questo è il percorso di tutto il vangelo dall’inizio (cf 2,11) fino alla fine (cf 20,31).
Così credere diventa un’esperienza, un “poter essere” e non solo un dovere: diventare figli e figlie, cioè amati e generati, da Dio stesso come il Figlio unigenito.
Questa è la possibilità unicamente data dal “farsi carne” del Figlio e del suo “dimorare tra noi”: un conoscere assolutamente nuovo di noi stessi, ma anche di Dio, che scaturisce della sua rivelazione.
Gli opposti per antonomasia, la parola e la carne, che convivono stabilmente in una nuova umanità, quella Figlio e di noi figli e figlie.
Si apre, non solo una nuova epoca, ma un nuovo percorso di vita, di conoscenza e di comportamento, normati dalla gratuità dell’amore e dalla verità che fa liberi.
Non siamo più sottoposti ad un’etica, ma esprimiamo una nuova identità nata dalla partecipazione alla vita stessa di Dio, di cui possiamo vedere il volto.
Lo conosciamo per esperienza e non per immaginazione; condividiamo la sua presenza tra noi, un noi che dà all’io la sua vera dimensione (nel prologo tutto è al plurale).
Mi sembra che queste siano le caratteristiche della celebrazione “natalizia”: vediamo perché crediamo, crediamo perché amati, amati ci amiamo.
Roberto
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