(Domenica XXXIII TO/A)
Proverbi 31,10…31 / Salmo 127 / 1Tessalonicesi 5,1-6 /
Matteo 25,14-30
RISCHIARE
“Il pericolo, il nostro rischio,
è di comportarci come il servo malvagio…
non fare nulla di male non basta
Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, ma è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni. Colui che aggiunge talenti nuovi
ha la stessa mentalità di Dio
rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri,
non accetta di lasciare tutto com'è.
Solo una cosa tralascia: il proprio utile”.
FRANCESCO, 19.11.2017
“Il Signore verrà come un ladro di notte” (1Tessalonicesi 5,2 – II lettura).
È un’immagine ricorrente anche nei racconti evangelici (cf Mt 24,23; Lc 12,39), anche se non tanto piacevole, magari preferiamo quella dello “sposo che faceva tardi per le nozze” (Mt 25, 5 – Vangelo di domenica scorsa) o quella del “padrone che parte per
un lungo viaggio” (vv. 14ss. di oggi) ma realtà non cambia. Fin dai primi giorni dopo la risurrezione del Nazareno, si era diffusa tra i cristiani la consapevolezza che il Signore si sarebbe presto manifestato e avrebbe “concluso la storia”. Le stesse lettere alla comunità di Tessalonica (Salonicco), i primi scritti cristiani del N.T., sono intrise di questa attesa. Lo testimoniano sia i racconti evangelici nella loro sezione “escatologica” sia il rapporto che i discepoli di Gesù instaurano con i beni materiali, le loro proprietà, al punto di “vendere tutto, consegnarlo agli Apostoli e distribuirlo a ciascuno per le proprie necessità” (cf Atti degli Apostoli 4,34-37; 5,1-11).
Sapere che c’è un compimento finale dell’opera iniziata dal Nazareno durante la sua esistenza terrena, di cui la sua risurrezione ne è l’inaugurazione; constatare il prolungarsi dell’attesa per questa “venuta gloriosa” hanno via via cambiato l’atteggiamento dei cristiani, portandoli a valorizzare “l’oggi” del Signore, come ben evidenziato dal racconto evangelico di Luca.
Anche la liturgia, che nei primi secoli si andava piano piano strutturando, ce ne dà un’ulteriore conferma. Per questo la “Veglia pasquale” si prolungava fino al mattino: nella celebrazione eucaristica il Risorto “viene” sacramentalmente tra i suoi come il sole del mattino, di un giorno senza tramonto che abbraccia tutto l’arco della nostra esistenza umana.
Nei secoli successivi (dal IV al VI) si formerà addirittura un “tempo liturgico” particolare a tenere vivo quest’atteggiamento di “vigilare nell’attesa del ritorno glorioso del Signore”: il tempo di Avvento.
Nel Medioevo, date anche le drammatiche vicende che colpiranno la società europea, non mancheranno le derive “apocalittiche” e catastrofistiche anche nella spiritualità cristiana, con notevoli ricadute sociali e culturali.
Già Paolo lo sottolineava: “E quando la gente dirà: C’è pace e sicurezza” allora d’improvviso la rovina li colpirà” (1Ts 5,3a; cf Mt 24,4ss. con paralleli in Mc 13,3ss. e Lc 21,7ss.).
Sciagure preannunciate, persecuzioni previste, cataclismi terrificanti… il tutto però illuminato dalla venuta del Signore (cf Mt 24,30) che infonde coraggio e fiducia nel vedere non tanto “la fine”, ma “il fine” di tutto.
Quindi l’immagine della “donna che soffre le doglie del parto”, che attraversa tutto il N.T., rende molto bene la condizione della Chiesa e di ogni singolo credente nella storia e nel mondo (cf Mt 24,8; Mc 13,8; 1Ts 5,3b; Rm 8,22; Gv 16,21; Ap 12,2ss.; anche in Is 13,8; 21,3; 26,17 e Os 13,13; Mic 4,9).
Mi soffermo su di essa perché è un “segno di vita” nel travaglio e nel dolore, proprio come ci troviamo noi oggi in questo tempo di pandemia che ci ha fatto però anche accorgere di quanti altri tipi di contagio eravamo vittime senza accorgercene.
A noi, come ai servi della parabola di Matteo 25,14-30, vengono consegnati “i beni” che poi sono “comuni”, di tutti… ma a noi viene dato il compito di farli produrre.
Non c’è solo l’intraprendenza dei primi due, ma anche l’indolenza del terzo dovuta al suo timore del padrone e al non aver mai sentito il dono ricevuto come qualcosa di proprio e quindi da restituire intatto.
Qui il “capitalismo liberale” di matrice calvinista avrebbe buon gioco, ma non è tanto questo il valore che c’è in gioco, quanto piuttosto il rapporto di reciproca fiducia che annulla la distanza “padrone – servo” per instaurare quella di collaborazione e responsabilità.
Nell’odierna liturgia della Parola “la donna” e “i servi” sono assunti a simbolo dell’autentico credente, essi hanno in comune un carattere che ne definisce anche il valore in rapporto alla salvezza riconosciuto unicamente da Dio: la fedeltà.
La donna è lodata perché il suo uomo può fidarsi di lei, e così i servi sono ricompensati perché “fedeli”. Dunque l’operosità umana acquista valore nella misura in cui nasce da un rapporto di disponibilità all’amore, dalla consapevolezza di possedere solo ciò che si è ricevuto, compresa la stessa capacità di operare. Siamo nell’orizzonte della riconoscenza e della gratitudine, quindi della gioia di ricevere e dare, di condividere.
È appunto a questa fedeltà che la Parola evangelica promette una pienezza traboccante, inimmaginabile. Alla fedeltà di un vivere quotidiano come dono ricco di potenzialità, che merita rischiare e scoprirlo è il compito del credente, annuncia l’assenza del Donatore sempre presente e la sua attesa gioiosa".
Roberto
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