“LE PAROLE… LA PAROLA”
22 novembre 2020 (Cristo Re e Signore dell’universo)
Ezechiele 34,11-12.15-17 / Salmo 22 / 1Corinzi 15,20-26.28
Matteo 25,31-46
Piccoli e Fratelli
“I più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore.
Sì, essi sono nostri fratelli e sorelle
come tali dobbiamo amarli e trattarli.
Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa, la nostra stessa fraternità cristiana riprende vita.
I cristiani, infatti, vanno incontro ai poveri e deboli
non per obbedire ad un programma ideologico,
ma perché la parola e l’esempio del Signore
ci dicono che tutti siamo fratelli.
Questo è il principio dell’amore di Dio
e di ogni giustizia fra gli esseri umani”.
FRANCESCO, 18.02.2015
Siamo giunti alla “fine” di questa sezione del lungo racconto evangelico di Matteo e in particolare del suo insegnamento messianico che abbiamo visto così tanto contrastato dalle autorità giudaiche. Soprattutto è “il fine” verso cui tende tutto il suo ministero (cf 26,1-5) e, come spesso succede, è proprio la meta, la conclusione, che dà senso a tutto il percorso ed al suo inizio (cf 1Corinzi 15,20ss. – II lettura).
La famosa scena parabolica che viene proclamata in questa domenica, non ci rappresenta tanto “la fine del mondo”, più volte profetizzata nei capitoli precedenti con immagini altrettanto suggestive (cf 10,23; 13,40-43.49-50; 16,27-28; 19,28; 24,1- 25,30), e nemmeno la rappresentazione della “regalità” che nell’odierna liturgia celebriamo a conclusione dell’anno liturgico (cf 25,34.40.45).
Siamo all’apice del compimento di tutta la Torah (cf 5,17-20), che coincide con la piena e sorprendente manifestazione del regno di Dio inaugurato dal Nazareno, cioè del volto stesso di Dio e del modo nuovo di potersi relazionare con Lui.
Non è mia intenzione entrare nei dettagli per spiegare questa parabola, ma fornire soltanto alcune linee ermeneutiche per farne cogliere tutta la sua profondità e novità a cui l’evangelista cerca continuamente di aprire la comprensione dei discepoli e dei suoi uditori (cf 9,17).
Anzitutto, nel solco della più genuina tradizione biblica, si tratta di “un re pastore” il cui compito è anche quello di “discernere” sia per condurre meglio che per tutelare le diverse razze nella promiscuità (cf Ezechiele 34,17 – I lettura). Ma questa è solo un’immagine utilizzata, come quella del “giudice-re”, perché subito si capisce che si tratta di ben altro: una convocazione universale di tutti i popoli del pianeta.
È subito chiaro lo scopo: far entrare nel regno, non solo annunciato da Gesù, ma addirittura predisposto all’inizio del piano salvifico del Padre, il senso della creazione: la comunione con Lui.
Sbalordisce che questo ingresso nel regno venga “meritato” dall’essersi comportati nei confronti degli altri semplicemente come “esseri umani”, trattandoli come propri simili, specie nelle loro situazioni di disagio o di difficoltà.
Pertanto non si fa cenno a nessuna opera di carattere religioso o cultuale che costituiva “la giustizia” predicata nel giudaismo e contro cui Gesù ha proclamato un superiore e nuovo modo di compiere la volontà di Dio (cf 5,20).
Qui è veramente superato ogni limite e confine, così si verifica l’unità e l’uguaglianza dei due precetti dell’amore verso Dio e verso il prossimo (cf 22,34-40): “tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (cf 25,40).
Viene inoltre in evidenza il primato dei piccoli, già riconosciuto nel “discorso alla comunità” (cf 18,1-10), in una dimensione nuova: la fraternità (cf 12,49-50).
Ad una comunità “smarrita” per la distruzione del Santuario (nel 70 d.C. da parte delle truppe romane) e la perdita di un “centro cultuale”, ora il fratello più piccolo in mezzo alla comunità (cf 18,2) diventa il luogo di incontro con Dio attraverso la presenza del Risorto (cf 18,20) riconoscibile soltanto, altrimenti misconosciuto, nell’incontro con l’umanità debole e carente di ogni fratello.
In questa prospettiva la rivoluzione evangelica inaugurata dal Messia si compie, ma non esaurisce il continuo bisogno di “cambiamento di mentalità” per accogliere il regno da Lui inaugurato (cf 4,17) e riconoscerlo con stupore dove nemmeno pensavamo fosse possibile incontrarlo, vale a dire nei fratelli umiliati, perseguitati, rifiutati come Lui.
“Il giudizio annunziato dal vangelo si va già realizzando nell’oggi; non solo nel senso che sull’agire quotidiano si eserciterà il giudizio ultimo, ma anche nel senso che già adesso, in ogni avvenimento di amore o di chiusura tra gli esseri umani, (vedi l’alternarsi di “allora” e “quando” e l’uso dei verbo all’aoristo), si manifesta la signoria di Cristo, la sua solidarietà con gli ultimi, la sua vittoria su tutto ciò che separa ed estrania”.
C’è altra signoria più visibile che possa affermarsi alle nostre pretese di mondana onnipotenza?
C’è altra unificazione più efficace di ciò che era stato anche violentemente separato tra Dio e l’essere umano? Dove l’umano è anche spezzato in sé e la morte diventa per eccellenza “il nemico”; ma è proprio attraverso di essa che Lui dà la vita per gli altri e ricostruisce l’assoluto e nuovo, totale e definitivo, rapporto tra noi e col Padre: “Dio, tutto in tutti” (cf II lettura).
Nell’Eucaristia, celebrata e vissuta, siamo già “benedetti nel regno del Padre”, resi partecipi al suo banchetto, insieme con tutti coloro che abbiamo sinceramente amato e servito (cf v. 44b).
Roberto
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