“LE PAROLE… LA PAROLA”
11 ottobre 2020 (Domenica XXVIII TO/A)
Isaia 25,6-10 / Salmo 22 / Filippesi 4,12…20 / Matteo 22,1-14
FESTEGGIARE
“La comunità evangelizzatrice è gioiosa
sa sempre “festeggiare”.
Celebra e festeggia ogni piccola vittoria,
ogni passo avanti nell’evangelizzazione.
L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia
in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi”.
FRANCESCO, La gioia del Vangelo 24
Finalmente, dopo una parabola drammatica e con esito tragico (cf 21,44-45), siamo invitati ad una “festa di nozze”! Ma aspettiamo di ascoltare come procede per renderci conto che non tutto fila liscio e alla fine non tutti “vissero felici e contenti”.
Anzitutto anche questa è rivolta “ai capi dei sacerdoti e ai farisei” e già questo ci fa capire che siamo in un contesto polemico di opposizione nei confronti di Gesù.
Come la vigna, la vite, il vino nella bibbia si riferiscono anche al popolo ed al suo rapporto con il Signore, oltre che hai suoi doni, anche le nozze sono espressione di quale patto nuziale che l’alleanza tra loro, la loro reciproca felicità.
L’elemento di novità ora è la presenza del figlio del re di cui si celebrano le nozze; ma con chi?
Il primo carattere destabilizzante del racconto è la reazione degli invitati, che non solo incuranti si rifiutano di partecipare (nonostante che sia stato anche illustrato il menù di chiaro sapore messianico: cf Isaia 25,6 – I lettura), ma addirittura “prendono, insultano, uccidono” gli emissari (cf vv. 3-6).
Il secondo è l’indignazione omicida del re che ha dimensioni a dir poco sproporzionate, come anche in 21,41.
Il terzo sono i nuovi invitati ritenuti più degni, ma non si capisce secondo quali criteri, dato che si tratta di “buoni e cattivi, ai crocicchi delle strade, tutti quelli che troverete…” (cf vv. 8-10), quindi si presume gli “emarginati” come i pagani e i pubblici peccatori, il che ci collega con 21,31.
Per non parlare dell’ostinazione da parte del re a invitare gente, che non si rassegna a veder rimanere vuota la stanza nuziale!
L’ultimo, positivo, è che alla fine “la sala delle nozze si riempì di commensali”.
Un modo di procedere abbastanza insolito, con colpi di scena ed esiti inspiegabili: perché rifiutare un invito a nozze? Perché poi reagire in modo così violento da ambo le parti?
E poi… non è finita: se il secondo invito e rivolto a tutti, senza discriminazione, perché chi non è munito di “abito nuziale” è cacciato fuori in quel modo così crudele dallo stesso re che giunge nel bel mezzo della festa? (cf vv. 11-13). Nemmeno lo sprovveduto ha una risposta adeguata, tace soltanto.
Si tratta di un’altra parabola collegata qui con l’intreccio delle altre precedenti?
Non ci convince nemmeno la conclusione del v. 14 che ci ricorda il detto degli “ultimi che saranno primi” (19,30), anche se la dialettica tra “chiamati” e “scelti” non dipende dai gruppi di appartenenza ma dal tipo di adesione all’invito.
Si tratta ancora di una parabola sull’intera storia della salvezza e si capisce che essa appartiene però alla serie di polemiche che poi esploderanno nell’aperta opposizione a Gesù delle autorità politiche e religiose (cf 22,15-23,29). Il loro ambiente originario è poi diventato quello della stessa comunità di Gerusalemme e del suo difficile rapporto con il resto del popolo, con la sua storia di salvezza: i discepoli e i primi cristiani hanno visto realizzarsi nella distruzione della Città santa nel 70 d. C. l’avverarsi di tutte le profezie.
L’attualità del racconto evangelico si rivela nella sua proclamazione oggi, a noi comunità radunata per l’ascolto e per celebrare “la festa di nozze dell’Agnello”. Nessuno di noi ha i requisiti richiesti, ma sia tutti invitati e abbiamo risposto; possiamo chiederci se indossiamo “l’abito nuziale”, che per me corrisponde alla consapevolezza di essere noi la sposa che il “Figlio del re” vuole sposare!
Ancora una volta il vangelo sconvolge i nostri criteri e le nostre abitudini e ci chiede soltanto di lasciarci amare, così come siamo. Nella nostra povertà, come nella nostra prosperità, con Paolo siamo convinti che “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (ai cristiani di Filippi 4,13), anche grazie al supporto della comunità: insieme possiamo sperimentare l’incalcolabile potenza dell’amore di Dio (cf Romani 2,4; 9,23; 11,33).
Un amore misericordioso verso tutti, ma anche tenero con ciascuno: “asciugherà le lacrime su ogni volto” perché “eliminerà la morte per sempre” (Isaia 25,8).
Così “Gesù ha consegnato sé stesso si suoi discepoli, come ricordo perenne e vivo, come speranza e anticipazione della venuta definita del Regno in una cena… in continuità con la prima alleanza, ma nello stesso tempo dava loro un compimento inatteso: in base al modo stesso con cui viene accolto. Il Regno è un già per tutti i poveri, gli indegni di parteciparvi… con lo stupore, la gratitudine, la gioia dei senza diritti a farne parte.
L’Eucaristia che celebriamo ci giudica ancora oggi in base al nostro modo di parteciparvi” e solo noi possiamo correre il rischio di autoescluderci dalla festa! Non siamo solo invitati, ma anche sottoposti al discernimento critico dell’evangelo di oggi.
Roberto
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