“LE PAROLE…LA PAROLA”
27 MARZO 2022 - IV QUARESIMA / C
27 MARZO 2022 - IV QUARESIMA / C
Giosuè 5,9a.10-12
Salmo 102
2Corinzi 5,17-21
Luca 15,1-3.11-32
Ritornare a CASA
Se non è facile “essere genitori”, non lo è di meno “essere figli”.
O meglio “vivere da figli e da figlie” nel momento in cui ci si rende conto chi siano il proprio padre e la propria madre… Allora anche la casa può diventare una “prigione” o può essere vissuta come un “albergo”, comunque non si vive da figli, non ci si sente amati.
Addirittura per millenni, prima di Cristo, gli esseri umani hanno vissuto da “sottomessi” il loro rapporto con Dio; dopo che Gesù Nazareno -riconosciuto dai suoi come Figlio di Dio- ha fatto scoprire loro la “figliolanza” (cf Giovanni 1,11-14.18) ha dato anche loro la paradossale possibilità di dichiararne “la morte” [vedi FRIEDRICH NIETZSCHE, in La gaia scienza e Così parlò Zarathustra].
Tutto cambia quando si rientra in contatto con se stessi, con la propria interiorità e la propria vera identità, dopo essere stati lontani dal senso e aver vissuto in modo folle, dissennato, estraniandosi da se stessi. Ogni fuga dalla realtà si infrange contro un’illusione che prima o poi delude amaramente finché non si riesce a dargli il nome giusto, a riconoscere la verità.
Luca 15,11-32 / La casa
Nella originalissima e toccante parabola (15,11-32), Luca nomina solo il padre, la madre sembra assente… ma a ben vedere egli ama in modo materno, con “viscere di misericordia” [in ebraico: rechem=amore viscerale]. Il racconto è preceduto da altre due parabole di cui, nella prima il protagonista è un uomo [il pastore che cerca la pecora perduta 15,3-7] e nella seconda una massaia [che cerca una moneta perduta in casa vv. 8-10] tutto questo non solo per “parità di genere”, ma per trasmetterci l’esperienza totalizzante di essere amati da Dio.
Tuttavia nella parabola non scorre un improbabile “buonismo”, ma viene in evidenza fin dall’inizio la difficoltà di riconoscere e comprendere l’amore, di rimanere liberamente legati ad un rapporto d’amore che sia familiare, amicale, di coppia.
In realtà la parabola illustra il dramma dell’essere umano e dell’umanità di sentirsi accolti in un “grembo di misericordia” che ci genera alla libertà di amare gratuitamente. Il figlio minore, con la sua pretesa di indipendenza, rifiuta la stessa presenza del padre nella sua esistenza decretandone la “morte” pur di possederne la “vita” [tòn bìon v. 13] ma così andrà incontro alla morte [nekròs v. 24].
Il figlio maggiore invece continua a vivere nella casa paterna, ma come un servo salariato [doulos v. 29] e non riesce nemmeno ad immaginare che il padre lo ami solo perché è “suo figlio” [téknon v. 31]. Il che lo rende lo rende spietato verso il più piccolo, svergognandolo davanti al padre. Il suo atteggiamento corrisponde a quello di scribi e farisei che hanno provocato Gesù a raccontare le tre parabole, criticato perché i peccatori gli si avvicinano per ascoltarlo, Lui li accoglie e mangia con loro (cf vv. 1-3).
Ma ancora meglio, la parabola ritrae questo padre che “vide da lontano, ne ebbe compassione [esplaghnisze, come ad una madre che si rompono le acque per il parto], corse incontro, si gettò al collo e lo baciò”. E infine, sordo alle opportunistiche dichiarazioni di pentimento del figlio ritornato e ancora ancorato al suo passato (cf vv. 17-20.21), è già proiettato verso il futuro: lo fa rivestire come per il giorno delle nozze e fa preparare la festa nuziale dichiarandolo “risorto”
(cf vv. 22-24). Per lui non è mai stato lontano [asòtos cf v.13], è stato sempre figlio poiché lui non ha mai smesso di essere padre, e quindi di amarlo.
Non meno amore ha per il figlio maggiore: anche a lui esce incontro per convincerlo ad entrare, anzi lo supplica in un atteggiamento orante che dovrebbe convincerlo a lasciarsi raggiungere anch’egli dall’ininterrotto flusso di amore che finora lo ha tenuto in vita nella casa in cui si sentiva un dipendente. Un padre che ama come una madre.
Il tutto non segue la sequenza peccato-pentimento-conversione, ma si incontra con un diverso insensato atteggiamento paterno-materno: il perdono genera il pentimento. Un amore simile non può essere determinato da nessun pentimento ed è l’unico che può far rileggere la propria vicenda alla luce dell’amore paterno che, come quello di una madre, non potrà mai venir meno (cf Isaia 49,14-16).
Il finale però è a sorpresa: accetterà il figlio maggiore di partecipare alla festa?
Contestualizzazione liturgica
A cammino ormai inoltrato del nostro itinerario quaresimale, la Liturgia ci fa già intravvedere la meta, che già fin da ora, in ogni passo ed in ogni istante della nostra esistenza umana è al nostro fianco, ed in ogni vita ci accompagna: l’amore del Padre, la vera “terra promessa” in cui festeggiare eternamente.
Oggi, domenica di Laetare [dalla prima parola dell’antifona d’ingresso: “Rallegratevi” (cf Isaia 66,10-11)], anticipa l'esultanza pasquale nel condividere la gioia del Padre che ci accoglie e fa festa per noi suoi figli ritornati nella sua casa. È una festa nuziale: la chiesa “sposa e madre” ci nutre con la Parola e il Pane della Vita.
Così nella I lettura/Giosuè 5,9…12 che narra della “prima pasqua” celebrata dal popolo di Israele nella terra dei propri antenati, Canaan. Come “figlio di Dio” (cf Esodo 4,22, Osea 11,1) egli entra nella “casa” che il Signore ha preparato per lui dopo averlo fatto uscire dall’Egitto, “casa della schiavitù”. D’ora in poi la Pasqua diventerà la festa che celebra la gioia della liberazione, anche se Israele correrà sempre il rischio di vivere come un “suddito” e non come amato (cf figlio maggiore
della parabola lucana).
Riecheggia sulle nostre labbra la lode e il ringraziamento del Salmo 33: “Ho cercato il Signore e mi ha risposto e da ogni timore mi ha liberato… Lo benedirò! Celebrate con me il Signore!” Espressioni di gioia e di riconoscenza nella nostra celebrazione pasquale che festeggia la gioia ritrovata per la vita che non si ferma mai perché l’amore è più forte di ogni morte.
È l’esperienza di essere nuove creature che l’apostolo Paolo ricordava ai cristiani di Corinto (2Cor 5,17-21/II lettura): “lasciarci riconciliare con Dio” che già lo ha fatto mediante Cristo con la forza del suo amore misericordioso, sorgente zampillate di eterna novità.
A questa forza possiamo solo “lasciarci andare”, farci riconquistare e riconciliare con la vita, con noi stessi, con l’amore che sempre opera per primo, riconosciuto nella trama dei fatti quotidiani e di fronte a cui siamo posti: riconoscerci prodighi e accettare la gioia del Padre, o presumerci giusti e scandalizzarci di Lui?
In preghiera con la Liturgia
O Padre,
che nel tuo Figlio crocifisso e risorto
offri a tutti i tuoi figli e figlie
l’abbraccio della riconciliazione,
vinci ogni nostra chiusura
e facci capaci di accoglierci e di perdonarci
festeggiando insieme e con gioia
la Pasqua dell’Agnello.
Tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità de tuo Spirito, ora per l’eternità. Amen.
Salmo 102
2Corinzi 5,17-21
Luca 15,1-3.11-32
Ritornare a CASA
Se non è facile “essere genitori”, non lo è di meno “essere figli”.
O meglio “vivere da figli e da figlie” nel momento in cui ci si rende conto chi siano il proprio padre e la propria madre… Allora anche la casa può diventare una “prigione” o può essere vissuta come un “albergo”, comunque non si vive da figli, non ci si sente amati.
Addirittura per millenni, prima di Cristo, gli esseri umani hanno vissuto da “sottomessi” il loro rapporto con Dio; dopo che Gesù Nazareno -riconosciuto dai suoi come Figlio di Dio- ha fatto scoprire loro la “figliolanza” (cf Giovanni 1,11-14.18) ha dato anche loro la paradossale possibilità di dichiararne “la morte” [vedi FRIEDRICH NIETZSCHE, in La gaia scienza e Così parlò Zarathustra].
Tutto cambia quando si rientra in contatto con se stessi, con la propria interiorità e la propria vera identità, dopo essere stati lontani dal senso e aver vissuto in modo folle, dissennato, estraniandosi da se stessi. Ogni fuga dalla realtà si infrange contro un’illusione che prima o poi delude amaramente finché non si riesce a dargli il nome giusto, a riconoscere la verità.
Luca 15,11-32 / La casa
Nella originalissima e toccante parabola (15,11-32), Luca nomina solo il padre, la madre sembra assente… ma a ben vedere egli ama in modo materno, con “viscere di misericordia” [in ebraico: rechem=amore viscerale]. Il racconto è preceduto da altre due parabole di cui, nella prima il protagonista è un uomo [il pastore che cerca la pecora perduta 15,3-7] e nella seconda una massaia [che cerca una moneta perduta in casa vv. 8-10] tutto questo non solo per “parità di genere”, ma per trasmetterci l’esperienza totalizzante di essere amati da Dio.
Tuttavia nella parabola non scorre un improbabile “buonismo”, ma viene in evidenza fin dall’inizio la difficoltà di riconoscere e comprendere l’amore, di rimanere liberamente legati ad un rapporto d’amore che sia familiare, amicale, di coppia.
In realtà la parabola illustra il dramma dell’essere umano e dell’umanità di sentirsi accolti in un “grembo di misericordia” che ci genera alla libertà di amare gratuitamente. Il figlio minore, con la sua pretesa di indipendenza, rifiuta la stessa presenza del padre nella sua esistenza decretandone la “morte” pur di possederne la “vita” [tòn bìon v. 13] ma così andrà incontro alla morte [nekròs v. 24].
Il figlio maggiore invece continua a vivere nella casa paterna, ma come un servo salariato [doulos v. 29] e non riesce nemmeno ad immaginare che il padre lo ami solo perché è “suo figlio” [téknon v. 31]. Il che lo rende lo rende spietato verso il più piccolo, svergognandolo davanti al padre. Il suo atteggiamento corrisponde a quello di scribi e farisei che hanno provocato Gesù a raccontare le tre parabole, criticato perché i peccatori gli si avvicinano per ascoltarlo, Lui li accoglie e mangia con loro (cf vv. 1-3).
Ma ancora meglio, la parabola ritrae questo padre che “vide da lontano, ne ebbe compassione [esplaghnisze, come ad una madre che si rompono le acque per il parto], corse incontro, si gettò al collo e lo baciò”. E infine, sordo alle opportunistiche dichiarazioni di pentimento del figlio ritornato e ancora ancorato al suo passato (cf vv. 17-20.21), è già proiettato verso il futuro: lo fa rivestire come per il giorno delle nozze e fa preparare la festa nuziale dichiarandolo “risorto”
(cf vv. 22-24). Per lui non è mai stato lontano [asòtos cf v.13], è stato sempre figlio poiché lui non ha mai smesso di essere padre, e quindi di amarlo.
Non meno amore ha per il figlio maggiore: anche a lui esce incontro per convincerlo ad entrare, anzi lo supplica in un atteggiamento orante che dovrebbe convincerlo a lasciarsi raggiungere anch’egli dall’ininterrotto flusso di amore che finora lo ha tenuto in vita nella casa in cui si sentiva un dipendente. Un padre che ama come una madre.
Il tutto non segue la sequenza peccato-pentimento-conversione, ma si incontra con un diverso insensato atteggiamento paterno-materno: il perdono genera il pentimento. Un amore simile non può essere determinato da nessun pentimento ed è l’unico che può far rileggere la propria vicenda alla luce dell’amore paterno che, come quello di una madre, non potrà mai venir meno (cf Isaia 49,14-16).
Il finale però è a sorpresa: accetterà il figlio maggiore di partecipare alla festa?
Contestualizzazione liturgica
A cammino ormai inoltrato del nostro itinerario quaresimale, la Liturgia ci fa già intravvedere la meta, che già fin da ora, in ogni passo ed in ogni istante della nostra esistenza umana è al nostro fianco, ed in ogni vita ci accompagna: l’amore del Padre, la vera “terra promessa” in cui festeggiare eternamente.
Oggi, domenica di Laetare [dalla prima parola dell’antifona d’ingresso: “Rallegratevi” (cf Isaia 66,10-11)], anticipa l'esultanza pasquale nel condividere la gioia del Padre che ci accoglie e fa festa per noi suoi figli ritornati nella sua casa. È una festa nuziale: la chiesa “sposa e madre” ci nutre con la Parola e il Pane della Vita.
Così nella I lettura/Giosuè 5,9…12 che narra della “prima pasqua” celebrata dal popolo di Israele nella terra dei propri antenati, Canaan. Come “figlio di Dio” (cf Esodo 4,22, Osea 11,1) egli entra nella “casa” che il Signore ha preparato per lui dopo averlo fatto uscire dall’Egitto, “casa della schiavitù”. D’ora in poi la Pasqua diventerà la festa che celebra la gioia della liberazione, anche se Israele correrà sempre il rischio di vivere come un “suddito” e non come amato (cf figlio maggiore
della parabola lucana).
Riecheggia sulle nostre labbra la lode e il ringraziamento del Salmo 33: “Ho cercato il Signore e mi ha risposto e da ogni timore mi ha liberato… Lo benedirò! Celebrate con me il Signore!” Espressioni di gioia e di riconoscenza nella nostra celebrazione pasquale che festeggia la gioia ritrovata per la vita che non si ferma mai perché l’amore è più forte di ogni morte.
È l’esperienza di essere nuove creature che l’apostolo Paolo ricordava ai cristiani di Corinto (2Cor 5,17-21/II lettura): “lasciarci riconciliare con Dio” che già lo ha fatto mediante Cristo con la forza del suo amore misericordioso, sorgente zampillate di eterna novità.
A questa forza possiamo solo “lasciarci andare”, farci riconquistare e riconciliare con la vita, con noi stessi, con l’amore che sempre opera per primo, riconosciuto nella trama dei fatti quotidiani e di fronte a cui siamo posti: riconoscerci prodighi e accettare la gioia del Padre, o presumerci giusti e scandalizzarci di Lui?
In preghiera con la Liturgia
O Padre,
che nel tuo Figlio crocifisso e risorto
offri a tutti i tuoi figli e figlie
l’abbraccio della riconciliazione,
vinci ogni nostra chiusura
e facci capaci di accoglierci e di perdonarci
festeggiando insieme e con gioia
la Pasqua dell’Agnello.
Tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità de tuo Spirito, ora per l’eternità. Amen.