“LE PAROLE… LA PAROLA”
25 luglio 2021 – XVII Domenica T.O.
Un PANE che sazia con AMORE
2Re 4,42-44/ Salmo 144 / Efesini 4,1-6 / Giovanni 6,1-15
Giovanni 6,1–15: il segno non capito
1-4: Lo seguiva molta folla: era vicina la Pasqua.
Il mare di Tiberiade è lo scenario dove sta avvenendo ciò che Giovanni racconta (cf vv. 1.16-17.22) e sarà anche il luogo della “terza” e ultima manifestazione del Risorto ai suoi discepoli (cf 21,1).
Questa traversata, forse verso Bestaida, avviene dopo che Gesù ha guarito l’infermo alla piscina di Betzatà in Gerusalemme (cf 6,1a; 5,1-6). Da qui ne era nata un’accesa discussione con i capi Giudei sul suo operato in giorno di sabato (vv. 7-17), che poi gli aveva dato occasione di tenere loro un lungo discorso sulla sua identità di Figlio che agisce in comunione con il Padre (vv. 18-46).
Per questo motivo le autorità avevano preso la decisione di ucciderlo (cf. 5,18), mentre la “folla numerosa lo seguiva vedendo i segni che compiva sugli infermi” (6,2).
Notiamo subito l’atteggiamento di Gesù che sale sul monte: si siede con i suoi discepoli (cf v. 3)1 ma il suo sguardo sulla moltitudine (cf v. 5) e ci rivela la sua intenzione nel dire e nel fare quello che seguirà: corrisponde allo sguardo di Dio sull’umiliazione del suo popolo schiavo in Egitto che ha deciso di “scendere” a liberarlo (cf Es 2,25; 3,7-8).
1Lo stesso annota Matteo prima del suo “discorso” (cf 5,1; anche qui è presente la grande folla che porta “tutti i malati…” 4,23-25; vedi Mc 3,17-12.); Luca riporta lo stesso fenomeno da parte della “moltitudine di gente” (cf 6,17b-19).
Infatti, l’evangelista aggiunge un altro indizio: “Era vicina la Pasqua, la Festa dei Giudei” (v. 4); ma Lui è ancora in Galilea e nemmeno si sa se parteciperà alla festa o meglio se vorrà parteciparvi, nonostante il parere dei suoi “fratelli” e le interferenze delle autorità giudaiche (cf 7,1-14)2. Anche questa inclusione è interessante.
Quindi il contesto “teologico” del racconto è molto alto: perché la folla non sale a Gerusalemme, dove nel Tempio si sacrificavano gli agnelli, ma segue Colui che già il Battezzatore aveva indicato come “l’agnello di Dio” (cf 1,29; vedi Ez 34,16)?
I malati di ogni genere di infermità sono come il popolo schiavo in Egitto e per loro, come con Mosè, inizia un nuovo esodo, definitivo: lasciano l’ormai inutile Festa dei giudei perché vedono “i segni” di uno che “vede” le loro necessità e se ne prende cura.
5-15: Prese i pani, rese grazie e li distribuì.
Nel racconto di Giovanni, diversamente dai Sinottici3, è Gesù stesso che si pone il problema dell’eventuale mancanza di cibo per la folla e chiede la collaborazione dei suoi ponendo, come sempre, delle domande (cf vv. 5-6).
Filippo è il primo che risponde, in modo molto pragmatico, badando alla spesa da sostenere per l’impresa (cf v. 7); poi si fa avanti Andrea con una proposta sconvolgente, di cui è consapevole per l’inadeguatezza del suo tentativo: “un ragazzino [un servo] con cinque pani d’orzo e due pesci arrosto” (cf vv. 8-9), il pane dei poveri. Inoltre sono inadeguati al bisogno: 5x5000!
Ciò che stupisce di più però è la tattica di Gesù (v. 10): fa adagiare i cinquemila uomini dove c’è erba (è primavera quindi abbondante), non “pecore che pascolano” (cf cap. 10; cf Mc 6,34 e par), ma commensali “sdraiati” ad un banchetto. Gesù stesso prende in mano la situazione, come alle nozze di Cana, e dirige la mensa (cf 2,7).
2 Giovanni spesso sottolinea che è “la festa dei Giudei” (cf 2,13; 11,55) e non come sarebbe “la Pasqua del Signore”, quasi che sia ormai solo una manifestazione dell’autocelebrazione delle autorità religiose e non più dell’alleanza del Signore con il suo popolo (Deuteronomio 16,1; Es 12,1- 28; Lv 23,4-14; Nm 28,16-25; Salmi 105,5; 114,1); mentre lo emette parlando della Pasqua vicina alla sua passione (cf 13,1; 218,28; 19,14.42).
3 Cf. Mc 6,32-44; Mt 14,13-21, Lc 9,10-17 dove i discepoli fanno notare la gravità della situazione e consigliano Gesù sul da farsi.
Sembra il realizzarsi delle profezie sul banchetto messianico per tutti i popoli sul monte (cf Is 55,1-3; 65,13).
I gesti compiuti qui per sfamare la folla: “prese i pani e, avendo reso grazie, li distribuì a chi giaceva. Similmente anche dei pesciolini, quanti ne volevano” (v. 11), si comprendono a pieno come “segno” di ciò che Lui farà della sua esistenza di Figlio: una Vita donata per la vita del mondo. Ciò emerge fin dall’inizio del racconto giovanneo, ma a noi, che li ripetiamo nel rito eucaristico, permettono di capire che ogni “segno” svolge la sua funzione in relazione ad una realtà e non il contrario. La prodigiosa distribuzione dei pani ci parlerà di eucaristia se entrambi ci permettono di entrare nel dono del Figlio di Dio per noi.
Infatti, così Egli farà prendendo la sua vita tra le mani, offerta al Padre per noi, come il pane; rendendo grazie per il dono ricevuto da Lui e distribuendolo Egli stesso, non i discepoli come nel racconto dei Sinottici.
Questa logica del dono, del donare investe tutto il senso della missione di Gesù come Inviato “per amore del mondo” (cf 3,16) ed è chiara la sua intenzione di coinvolgere anche i discepoli, facendo svolgere a loro il compito di servitori che devono “raccogliere i pezzi in sovrappiù…” (vv. 12-13); il simbolismo delle “dodici ceste” è significativo riguardo a loro.
Interessante allora che, nella sequenza della cena pasquale, l’evangelista ometta i gesti eucaristici e inserisca il gesto di Gesù che, come uno schiavo, si mette a lavare i piedi dei suoi, aggiungendo anche qui un discorso rivolto a loro sul compito di essere anzitutto servi gli uni degli altri (cf 13,1-5; 12-20).
Quale il senso di questa logica: l’amore! (cf 15,13ss.) “Così Dio ha tanto amato il mondo” (3,6)
“Come il Padre ha amato me così io ho amato voi” (15,9) “Come io amai voi, anche voi amatevi gli uni gli altri” (13,34; 15,12).
Non si tratta di dare qualcosa, seppur pane di cui si ha estrema necessità, ma se stessi! (cf l’espressione “date voi stessi da mangiare” in Mt 14,16 e Lc 9,13).
Infatti è prodigioso l’atteggiamento di condivisione che moltiplica le risorse a disposizione in modo sovrabbondante per tutti, questo è già il miracolo! Il “prodigioso” del segno sta nel fatto che qualcuno metta a disposizione della folla affamata ciò che è suo e non nell’esperienza miracolistica.
Come l’amore di Dio: a spreco!
Si possono verificare due conseguenze anche per noi: 1. anzitutto il servizio, svolto con e per amore, genera una compagnia (cum panis) e una fraternità, effetti dell’amicizia e della presenza di Gesù con noi (cf 15,14-15);
2. inoltre si genera una comunità: cinquemila sono qui le persone saziate, come cinquemila saranno i membri della prima comunità di Gerusalemme nella quale si praticava la condivisione dei beni (cf At 4,4.34; 2,42-45).
Questo fonda lo stretto e reciproco legame tra chiesa – eucaristia e carità, tanto vivo e critico nella realtà attuale, anche a livello di organismi ecclesiali!
Per chi è dunque il segno?
La folla sembra cogliere soltanto una comoda opportunità di sussistenza, per cui vuole “farlo re” anche se lo riconosce come “il profeta veniente nel mondo” (vv. 14-15).
I discepoli sono invitati dal Maestro ad entrare nella sua “logica del dare e del servire”, come abbiamo precedente visto e come dovremmo fare anche noi.
Gesù si ritira sul monte, stavolta da solo, mentre i discepoli scendono verso il mare e si imbarcano per Cafarnao (cf vv. 15-17).
In questo distacco c’è un’intenzione che si chiarirà nell’episodio che si intromette tra il “segno” e il “discorso” e che apparentemente sembra interromperlo (cf vv. 16-21)4.
Nell’OGGI della Liturgia
C’è sempre la possibilità di strumentalizzare o manipolare il segno, sia del pane che dell’eucaristia, per fini “politici” o utilitaristici, devozionali o intimistici: si è ben disposti ad accogliere “il miracolo” mentre se ne rifiuta il messaggio come già era capito ai profeti (ad Eliseo nella I lettura di oggi –2Re 4,42-44).
I contemporanei di Gesù, discepoli compresi, lo riconoscono come “il profeta veniente nel mondo” secondo i loro interessi e nostalgie nazionalistici, senza accogliere il significato compromettente del “distribuire” e del “servire”.
È questa la “chiamata” di ogni discepolo, pur nella sua limitatezza, ad operare e comportarsi in base all’amore del “Padre di tutti che agisce…. in/per tutti” (cf Efesini 4,1-6 – II lettura).
4 A. Maggi vede un parallelo con il ritirarsi di Mosè sul monte dopo il tradimento idolatrico del popolo (cf Es 32,4ss.); così fa Gesù rifiutando il tentativo idolatrico di farlo re? Il ritorno dei discepoli a Cafarnao indicherebbe che non condividono questa sua scelta e preferiscono la vita di prima (il ritorno in Egitto per Israele, cf Nm 14,11) così li avvolge il “buio” e sono presi dalla “paura” al vederlo perché pensano ad un castigo da parte sua? (op. cit., pp. 70-73).
Un’ermeneutica per la nostra esistenza “più umana”
RispondiEliminaLo sguardo di Gesù, il Messia nazareno, è sempre molto attento alle situazioni di fragilità e di necessità, quasi disperate.
Aveva notato il paralitico alla piscina di Betzatà, che stava lì da più di 30 anni e che nessuno aiutava ad immergersi per guarire (Giovanni 5,1-6); ora “vede” la folla accorsa “perché compiva segni sugli infermi” e per guardarla meglio sale su un’altura, “un monte”. Si innesca un incrocio di sguardi tra Gesù e loro, ma Lui “vede” qualcosa che gli altri, i discepoli, non vedono: hanno fame! (6,1-5).
È l’unico che “vede” qualcosa che non gli viene detto (diversamente dagli altri racconti evangelici), e il suo “vedere” è immediatamente operativo, alla ricerca di una soluzione, ed in questo vuole coinvolgere anche i suoi discepoli, quindi anche noi… non vuole fare tutto da solo!
La domanda posta da Gesù, inizialmente a Filippo, denota la sua preoccupazione sul luogo e il modo in cui sarà possibile procurarsi il nutrimento per la folla (cf vv. 5-7).
Cerca soluzioni efficaci ed immediate, realistiche alla portata di tutti, anche il suo modo di farlo, come sempre è eccezionale, straordinario, prodigioso… ma non “miracolistico”.
Il pane non cade “dal” cielo, come certi aiuti umanitari per le popolazioni indigenti del pianeta che gettano dagli aerei cargo, ma “del” Cielo / “di Dio Padre”, come spiegherà in seguito il tutto il capitolo 6 (cf vv. 27-28 e ss.)!
Il suo agire risveglia invece capacità e risorse; il suo porre domande attiva le persone a fare qualcosa che, come in questo caso, appare immediatamente inadeguato alla situazione ed alle necessità, ma indispensabile all’esito voluto da Lui:
5 “Dove compreremo pane perché costoro mangino?
6 …infatti sapeva cosa stava per fare.
7 Gli rispose Filippo:
Duecento danari di pane non bastano loro
perché ciascuno ne riceva un boccone.
8 Gli dice uno dei suoi discepoli, Andrea il fratello di Simon Pietro:
9 C’è un ragazzo qui che ha cinque pani d’orzo e due pesciolini,
ma cos’è questo per tanti?”.
Tra proposte pragmatiche, politiche ma non personali, si fa strada “l’impossibile realistico” di “5 pani d’orzo e 2 pesci”, totalmente inadeguati ma che almeno viene dal “cuore” di qualcuno, oltretutto di un ragazzino, ritenuto totalmente incapace a fare qualcosa per la comunità.
RispondiEliminaE i gesti successivi di Gesù (cf vv. 10-11) non hanno proprio nulla di eclatante o di plateale: anzitutto tratta le persone da “commensali” sdraiati sull’erba come ad un banchetto e non come “pecore da pascolare”; con un semplice ma solenne “ringraziamento” inaugura uno “stile” di condivisione e di comunione che diventerà l’anima anche non solo di “un nuovo culto” ma di radunarsi in una comunità: l’eucaristia!
Dallo sguardo sull’umanità alla distribuzione come in un banchetto, si svolge una “liturgia” fuori da ogni ritualismo formale, che può essere celebrata e vissuta nelle nostre relazioni quotidiane ed esente da ogni “pretesa” socio-assistenziale.
Sono “gesti divini” anche se non hanno nulla di ieratico e di sacrale come certe nostre celebrazioni, “prodigiosi” perché riescono a smuovere le persone a fare qualcosa partendo da se stessi, guardando a quanto ciascuno ha e può condividere con gli altri: “il miracolo” non sta affatto nella “moltiplicazione” - di cui non c’è nessun accenno - ma nella “condivisione” dei pani. Solo Dio, infatti, è capace di far aprire cuore e mani, come fa Gesù, il Figlio nostro fratello.
È proprio questo che non si vuol capire e che invece Gesù vuol far comprendere anzitutto ai suoi discepoli che qui hanno il compito di “raccogliere i pezzi avanzati”, cioè di far sa servi degli altri! (cf vv. 12-13; 26 ss.)
Il “segno” viene accolto come rimedio ad una situazione sociale insostenibile, ma non viene capito e subito frainteso: tentando di far diventare loro re Gesù la gente strumentalizza politicamente il suo operato come una possibilità di sussistenza totalmente deresponsabilizzata, mentre Lui vuole comunicare loro una nuova modalità di venire in contro alle loro indigenze di ogni tipo: la condivisione!
Infatti “fugge” da questa eventualità, ritornando da solo in quel luogo da dove inizialmente li aveva “visti” (cf vv. 14-15; 26-27).
Abbiamo imparato in questa pandemia che i problemi si affrontano e si risolvono non solo con i planes recovery funds, ma come abbiamo fatto all’inizio aiutandoci gli uni gli altri attraverso piccoli e semplici gesti di vicinato?!
Le Chiese, nei loro progetti e interventi caritativi (alcune volte un po’ troppo ostentati quasi a raccogliere consenso e suscitare credibilità a fronte di tanti altri scandali…), riusciranno ad essere fedeli a questo operato e mandato del Signore?
Roberto Geroldi
Può sembra un’annotazione marginale, secondo lo stile giovanneo, oppure una sempre collocazione cronologica, ma il fatto che “Era vicina la Pasqua, la Festa dei Giudei” (v. 4) ancora una volta ci dice “la fine” decretata e operata dal Messia nazareno già nella sua “prima Pasqua a Gerusalemme” del luogo e delle modalità di culto giudaiche (cf 2,13-25): l’amore di Dio non si compra come al “mercato” o in un luogo qualificato, ma dove il Figlio dona se stesso fino al suo “corpo”(v. 21), “carne e sangue” (cf 6,51-58).
RispondiEliminaE che sia arrivata la fine lo testimonia l’accorrere della grande folla da Lui, che non sale a Gerusalemme, dove nel Tempio si sacrificavano gli agnelli, Colui che già il Battezzatore aveva indicato come “l’agnello di Dio” (cf 1,29)
I malati di ogni genere di infermità sono come il popolo schiavo in Egitto, asserviti da un culto e da una religiosità che invece di liberali e di responsabilizzarli li opprime; come con Mosè, inizia con Gesù un nuovo esodo, definitivo: lasciano l’ormai inutile Festa dei Giudei perché vedono “i segni” di uno che “vede” le loro necessità e se ne prende cura.
Roberto Geroldi