“LE PAROLE… LA PAROLA”
9 maggio 2021 - VI domenica di Pasqua
Giovanni 15,9-17 – L’AMORE FECONDO È RECIPROCO
Atti apostoli 10,25…48 / Salmo 97 / 1Giovanni 4,7-10
Giovanni 15,1-27
Terzo discorso di Gesù nella cena pasquale
Contestualizzazione liturgica
Nella Liturgia di questa domenica vengono proclamati i vv. 9-17 del capitolo 15 del racconto evangelico di Giovanni, (i vv. 9-11 il V giovedì e i vv. 12-17 il V venerdì). Abbiamo già visto il flusso dell’insegnamento di Gesù ai suoi discepoli nel contesto della cena e il senso della sua proclamazione nel TEMPO PASQUALE.
L’evangelista ora abbandona la similitudine della vite/vigna (cf vv. 1-6)per farci entrare nel suo contenuto più profondo, l’origine di questa linfa vitale che scorre tra Gesù e noi, di che natura essa sia ed i suoi effetti in noi e tra noi nelle relazioni comunitarie, e nei confronti del “mondo”.
Il Risorto si propone ai suoi come colui che li lega a sé in un rapporto vitale. In Lui possiamo rimanere/dimorare, una comunione reciproca intra e interpersonale, feconda, generata in noi dalla sua parola
e dall’amore ricevuto dal Padre che Egli ci ha donato, un amore che ha la forza di diventare reciproco tra noi.
Giovanni 15,12-17
L’amore del Padre per me in voi
è amore reciproco tra voi.
L’agàpe per l’evangelista Giovanni si rivela come il senso e il contenuto di tutta l’azione salvifica del Padre verso l’umanità attraverso il Figlio, ed essa ora continua ad agire nell’amore reciproco all’interno della comunità credente che cerca di vivere il precetto del Signore: “che vi amiate gli uni gli altri” (v. 12) e in questo modo continua a manifestarsi l’amore del Padre verso tutti i suoi figli e figlie.
Il reciproco dimorare costituisce il modo di “essere in Gesù” del credente e della comunità: la “nuova alleanza” si basa su questa realtà ed è “vincolata” all’amore reciproco che Lui comanda. L’amore comandato a noi è per Gesù l’amore ricevuto dal Padre come comando di amare noi da amici fino a dare la vita
per noi (cf vv. 9-10b.12.13-14).
La legge costitutiva della comunità credente, l’amore reciproco, ha sempre come punto di riferimento quello del servizio di Gesù stesso e non un sentimento vicendevole: è disponibilità a dare la propria vita (cf 13,1.14).
In 13,34-35 Gesù avrebbe già consegnato questo “comando”, con una formulazione identica anche se più diretta e imperativa, che lo evidenzia come “nuovo”, da cui dipende la testimonianza credibile da discepoli del Signore.
Qui Gesù aggiunge questo comando come “il mio” (v. 12b). Credo che siano tre le affermazioni fondamentali alla comprensione di quanto il Signore chieda ai suoi discepoli ed a noi.
1. Anzitutto che sia “il mio”, non tanto nel senso ovvio di chi lo sta proponendo, ma che “regola” la sua esistenza di Figlio nei confronti del Padre e di noi.
Poco prima, nei vv. 9-10, Egli descrive la sua esistenza di Figlio in quanto amato1, e di conseguenza Egli ama noi nello stesso modo e dello stesso amore, permettendoci di dimorare in esso: essere discepoli, scelti da Lui come amici, vuol dire essere amati in modo
1 Giovanni è in consonanza anche con i sinottici negli episodi dell’immersione nel Giordano e nella trasfigurazione sul monte: Mc 1,11; 9,7b; Mt 3, 17; 17,5b; Lc 3,22b; lo aveva già affermato in 3,35 (vedi anche 17,23b).
permanente, vivere in pienezza è quindi dimorare il Lui nel suo amore2.
È possibile per noi, così limitati, fondare la nostra esistenza su questa realtà? Gesù ce ne fà dono, nel consegnare la sua vita per noi; il suo è un amore incondizionato, gratuito che pone solo una condizione per essere vissuto, quella sua stessa (cf v. 13).
Il comando è “il suo” perché anzitutto Egli lo osserva nei confronti del Padre, non per costrizione ma per adesione libera (cf 10,11) e perché nell’amare come è amato si realizza la sua esistenza di Figlio.
Diventa “nostro” non solo come precetto da osservare, anche fosse per gratitudine e riconoscenza; non essendo noi servi, ma amici esso diventa una “logica relazionale” i cui limiti sono soltanto nella nostra libera scelta. Scriveva Italo Calvino, al termine del suo romanzo: “L’amore non ha confini se non quelli che noi gli diamo”3, e l’amore “di” Gesù sta nel dare la vita! Egli, da amico comunica a noi tutto di se stesso, il che ci rende possibile una nuova e vera conoscenza di Dio (1Giovanni 4,8).
2. Qui sta anche il senso di “nuovo” (cf 13,34).
Potremmo dire che non esisteva prima un simile comandamento? Non ve ne è traccia nella Bibbia, anche se la cosiddetta “regola d’oro” gli si avvicina: “Fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te” (cf Mt 7,12).
“Mio e nuovo” non si possono separare, infatti la “novità” sta proprio nel fatto che è di Gesù, suo nella proposta e nella modalità e nella misura.
2 Tutta la prima parte del racconto giovanneo (“libro dei segni”) è finalizzato ad annunciare che Gesù è l’unico che possa dare accesso anche a noi alla vita incorruttibile e indefettibile, senza fine (“eterna”) e quindi l’invito è quello di “credere”; ora nei discorsi che fanno parte del “libro dell’ora gloriosa” di rivela che questa Vita non è una meta da raggiungere, anche ultra terrena, ma che è costituita dal “rimanere/dimorare” nell’amore del Padre che Gesù ci trasmette con il dono della sua vita, credere è quindi amare, o meglio lasciarsi amare e corrispondere all’amore!
3In “La giornata di uno scrutatore”.
Non è conseguenza etica di un comportamento nostro adeguato al suo, ma accoglienza del suo amore in noi che ci porta a fare nostro ciò che è suo. In altre parole è come se Egli “in noi” amasse gli altri come Lui ci ama.
Questo è anche il senso del “come io” che dice il motivo, la causa, il paradigma e la finalità4.
Qual è stata l’esperienza di Giovanni e delle sue comunità per arrivare a porre un’altra modalità e un’altra capacità, quella della “reciprocità”?
Di sicuro, quello che può sembra frutto di un percorso intellettuale, in realtà è scaturito dall’esperienza intensa e coinvolgente, anche se pur fragile, come deduciamo dalla sua prima lettera (cf 1Gv 3,10.11.15-16.23-24a; 4,7-12.15-16). Ora questo sarebbe tutto da approfondire, soprattutto quando ci viene detto che è il messaggio ricevuto “da principio” (v. 11; cf 16,4b; Gv 1,1) e che “vedendo e amando il fratello, si vede e si ama Dio” (cf vv. 19-21) e che addirittura “l’amore reciproco tra noi rende visibile e conoscibile Dio che è amore”! (cf v. 12; cf Gv 1,18).
3. Quest’ultima affermazione ci fa entrare nella terza dimensione che ha in sé l’amore reciproco, nei confronti del mondo: l’umanità arriverà così finalmente a credere in Gesù.
Tutto il racconto evangelico di Giovanni, soprattutto la prima parte nei capp. 2 – 12, “il libro dei segni”, ha quest’obbiettivo5, ma lo vediamo presente fino al termine dei “discorsi della cena”, dove in 17,21.23 Gesù parla dell’unità.
4 Nel “discorso della montagna”, paradigma dell’esistenza cristiana, è messa in evidenza la “novità evangelica”, rispetto alla Torah e quindi anche il “giusto comportamento adeguato” che supera la “giustizia degli scribi e dei farisei” soprattutto nei confronti del “fratello e del prossimo” (cf Mt 5,17.20.22-24.38-47). Già qui, la misura dell’amore filiale verso il Padre è “amate i vostri nemici” (v. 44-45), ed essa ci sembra insuperabile! I sinottici riconoscono “il primo e il più grande comandamento” riaffermato da Gesù proprio nell’amore del prossimo come “secondo o simile” (cf Mc 12,28ss., Mt 22,34ss.; Lc 10,25-28). Solo Luca poi, proseguendo con “la parabola del samaritano” (10,29-37) unifica i “due comandamenti” in quello per il prossimo superando la questione del “primo e del più grande”.
5“Credere in Gesù; nel Figlio inviato del Padre… vedere/conoscere per avere la vita eterna”:
Se l’unità tra i discepoli suscita l’adesione del mondo a Gesù come Inviato del Padre, il loro “amore gli uni per gli altri” li faranno riconoscere da tutti come “suoi” (cf 13,35).
Il compito dei discepoli e dei credenti è quello di “dare testimonianza nei confronti di Gesù” (cf 15,27; 17,18) quale migliore testimonianza dell’amore fino alla fine, fino al nemico, che diventa possibile e capace di suscitare reciprocità!
Quale dono più grande di Dio agli esseri umani? L’agàpe! Ecco la “vita piena, feconda, vera/autentica, incorruttibile e indefettibile”: amare in modo e nella misura tale “come” Gesù, capace di suscitare nell’altro una risposta libera e consapevole!
La presentazione del comandamento dell’amore reciproco costituisce in questa parte del capitolo 15 un’inclusione interessante:
v. 12: “che vi amiate gli uni gli altri”
v. 13: “dare la vita è l’amore più grande”
v. 14: “voi siete miei amici se fate il mio comando” v. 15: “vi chiamo amici, non servi”
v. 16: “io vi scelsi perché siate fecondi”
v. 17: “che vi amiate gli uni gli altri”
Al centro sta il rapporto di amicizia con Gesù (vv. 14-15) e quindi ribadisce che l’osservanza del “suo” comandamento è una questione d’amore, non obbliga ma gratifica nel praticarlo: Lui ci ama liberamente e l’amarci è la nostra libertà!
In effetti l’atteggiamento usuale nei confronti di un comando è quello servile, anche nei confronti della Torah era promessa “la felicità”, ma era comunque comunemente avvertita come un “giogo” da portare (cf Dt 6,3; Mt 11,29-30; Gal 5,1). Qui, invece, chi comanda non si separa creando distanza, piuttosto “si dona” unificando così l’intimo di chi lo esegue, sentendosi unito agli altri. È il senso del comandare nel “cum andare”, andare insieme che è anche il dono dell’unità.
L’autenticità dell’amore sarà anzitutto attestata dal frutto della sua piena gioia, segno di una vita feconda, pienamente vissuta e realizzata (cf v. 11); ulteriormente dal dono del Padre nella preghiera (cf v. 16c).
La consapevolezza nostra è di essere stati amati per primi e che “non siamo stati noi ad amare…”, quindi l’autenticità e l’efficacia di questa esperienza d’amore vengono dall’essere un dono ricevuto (cf 1Giovanni 4,7-10 – II lettura di oggi).
Perché esso “rimanga” e ci permetta di “rimanere” uniti come “tralci nella vite” non va interrotta quella reciprocità da cui proviene e che si estende in misura universale a tutti, amati e riconosciuti come amici, fratelli.
La vita di discepoli e di credenti che credono nell’amore del Padre per loro attraverso la vita donata di Gesù, è una “vita piena della sua gioia e della confidenza nel Padre”. Il frutto/grappolo di quella vite di cui noi siamo i tralci è dato dalla fecondità dell’amore e dell’amare che scorre in noi e tra noi, dal Padre attraverso Gesù. È questo il senso del mandato “andiate e/a portiate frutto” che dà anche al “che rimanga” un originale senso dinamico e non statico (cf v. 16b)6.
Questa è stata l’esperienza della giovane chiesa delle origini, dove l’autenticità dell’agàpe è anche garanzia di estensione e di stabilità, in quanto manifestazione dell’universale amore di Dio.
Così fa Pietro con Cornelio, riconosciuto e accolto nella sua singolarità irripetibile, senza barriere e discriminazioni, soltanto perché anch’egli amato dallo stesso amore attraverso lo stesso Spirito (cf Atti 10,25…48 – I lettura). È segno di libertà per una chiesa che poteva anche essere tentata di chiudersi nei confini di una nazione e di una stirpe: “lo Spirito soffia dove vuole” (Gv 3,8).
Ringraziamolo, con il Salmo 97 di essersi fatto conoscere a tutti.
6 Riguardo al “portiate frutto e diventiate miei discepoli” vedi B. MAGGIONI, op. cit., pp. 1805-1808.
Quella di Gesù è la più bella dichiarazione d'Amore, seguita da un dono inaspettato, gratuito. Ci insegna che Amare significa fare ciò che non ci è richiesto, donare ciò che l'altro non si aspetta...la Dichiarazione che si rinnova per noi ogni giorno. Amore e gioia: "siamo fatti per amare" e per gioire nella tenerezza generata dall'amore, innanzitutto perché "amati per primi". Nella reciprocità, appunto, è l'amore senza fine, che si rinnova e si diffonde senza riserve, senza pretese.
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