sabato 4 maggio 2024

Vicina è la PAROLA 5 maggio 2024: VI Domenica di Pasqua L’amore rimane: tu rimani?

Vicina è la PAROLA

5 maggio 2024: VI Domenica di Pasqua
Atti 10,25…48 / Salmo 97
1Giovanni 4,7-10
Giovanni 15,9-17
L’amore rimane: tu rimani?
Rimanere nell’amore” è tutt’altro che “comodo”: all’inizio ci sentiamo coccolati, al sicuro, finalmente protetti… capiti e in un certo senso arrivati perché riteniamo di avere chi o ciò che cercavano. Così smettiamo di cercare… mentre è proprio allora che viene “il bello” del faticare non per costruire in noi stessi un “nido”, ma per allargare gli orizzonti, aprire percorsi, avventurarsi in sentieri rischiosi, per lasciarsi andare e mollare la presa, affidarsi e abbandonarsi, crescendo nella consapevolezza della nostra reale povertà, nella scelta di non voler possedere.
Ecco perché è sempre presente la tentazione di “cosificare” l’altro, l’altra e di amarlo alla pari “del denaro, del successo, della vanità, del potere… Queste strade ingannevoli di ‘amore’ ci allontanano… e ci portano a diventare sempre più egoisti, narcisisti, prepotenti. E la prepotenza conduce a una degenerazione dell’amore, ad abusare degli altri, a far soffrire la persona amata. Penso all’amore malato che si trasforma in violenza - e quante donne sono vittime oggigiorno di violenze. Questo non è amore. ‘Rimanere nell’amore’, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli. Aprire il cuore agli altri, questo è amore, e donarci agli altri” (+Francesco)
Ermeneutica evangelica di Giovanni 15,9-17
Dall’allegoria “vite-tralci” nei vv. 1-8, ora l’evangelista si concentra sul tipo di relazione del Signore con noi e nostra con Lui, negli originali verbi “rimanere/dimorare” (5 volte) in un senso tutt’altro che statico, anzi reciproco. Notiamo i passaggi di pensiero che aprono ad effetti straordinari.
Rimanete nell’amore, il mio” quello del Padre per Gesù e suo per noi (vv. 9-10).
Per il popolo di Israele era l’osservanza dei comandamenti a garantire la fedeltà all’alleanza e la felicità per il popolo di Israele (cf Deuteronomio 4,1-24; 6,1-24); con Gesù si tratta di un’esperienza assolutamente nuova: è un’obbedienza libera e gioiosa, quasi una “necessità filiale” dell’essere “amato dal Padre” che vuole far sperimentare anche a noi, il cui effetto è “la gioia, quella mia in voi”, in pienezza (v. 11).
È la prima volta che nel suo vangelo Giovanni parla di “gioia” e lo fa come se fosse il desiderio più grande da parte di Gesù (cf 16,16-22), lo scopo del suo impegno, di tutte le sue parole, far sperimentare a noi quello che fa Lui stesso felice: “essere amato dal Padre e amare noi col suo amore nel quale Egli vive”. L’esistenza di ciascuno di noi anela alla piena felicità ed ora essa ci è donata in Gesù, attraverso la sua parola e il suo amore che rimangono in noi e ci permettono di rimanere in Lui.
Questa “sua gioia è piena in noi” quando, sentendoci amati da lui così tanto da rimanervi come tralci nella vite, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amati” (v. 12).
La richiesta del comandamento dell’amore reciproco costituisce in questa parte del capitolo 15 un’inclusione interessante (vv. 12…17):
v. 12: “che vi amiate gli uni gli altri”
v. 13: “dare la vita è l’amore più grande
v. 14: “voi siete miei amici se fate il mio comando
v. 15: “vi chiamo amici, non servi
v. 16: “io vi scelsi perché siate fecondi
v. 17: “che vi amiate gli uni gli altri
Al centro sta il rapporto di amicizia con Gesù (vv. 14-15) e quindi ribadisce che l’osservanza del “suo” comandamento è una questione d’amore, non obbliga ma gratifica nel praticarlo: Lui ci ama liberamente e l’amarci è la nostra libertà!
In effetti l’atteggiamento usuale nei confronti di un comando è quello servile, anche nei confronti della Torah era promessa “la felicità”, ma era comunque comunemente avvertita come un “giogo” da portare (cf Dt 6,3; Mt 11,29-30; Gal 5,1). Qui, invece, chi comanda non si separa creando distanza, piuttosto “si dona” unificando così l’intimo di chi lo esegue, sentendosi uniti. 
L’autenticità dell’amore sarà attestata dal “frutto” della sua piena gioia, segno di una vita feconda, pienamente vissuta e realizzata (cf v. 11); ulteriormente dal dono del Padre nella preghiera (cf v. 16c).
Perché esso “rimanga” e ci permetta di “rimanere” uniti come “tralci nella vite” non va interrotta quella reciprocità da cui proviene e che si estende in misura universale a tutti, amati e riconosciuti come amici, fratelli e sorelle.
La vita di discepoli e di credenti che credono nell’amore del Padre per loro attraverso la vita donata di Gesù, è una “vita piena della sua gioia e della confidenza nel Padre”. Il frutto/grappolo di quella vite di cui noi siamo i tralci è dato dalla fecondità dell’amore e dell’amare che scorre in noi e tra noi, dal Padre attraverso Gesù. È questo il senso del mandato “andiate e/a portiate frutto” che dà anche al “che rimanga” un originale senso dinamico e non statico (cf v. 16b) B. Maggioni.
Ambientazione liturgica: vivere in comunione
Anche noi, comunità radunata per l’Eucaristia, ritroviamo nelle parole del Signore il nostro “rimanere in Lui”, traendo vitalità e gioia dal “dimorare nel suo amore (cf vv. 11-12): siamo amati come figlie/figli dal Padre stesso che ci consente di qualificare anche i rapporti fraterni in comunità nella misura dell’amare di Gesù per noi: “dare la vita” e donarla sarà l’unico modo per accrescerla [Evangelo e 1Giovanni 4 – II lettura].
È stata l’esperienza di Pietro in casa di Cornelio sia nella condivisione della propria umanità, al di là dell’appartenenza religiosa, sia nell’azione dello Spirito in entrambi di “riconoscersi” in una inedita novità [Atti 10 – I lettura]: li unisce vedere l’azione del Signore in loro a tra loro, così diversi e così vicini, avvolti dalla stessa gioia che anche noi cantiamo nel Salmo 97 sentendoci partecipi di un’esultanza universale.

Preghiamo
O padre, 
che nel tuo Figlio ci hai chiamati amici, 
rinnova i prodigi del tuo Spirito,
perché, amando come Gesù ci ha amati, 
gustiamo la pienezza della sua gioia.
Amen.


venerdì 26 aprile 2024

Vicina è la PAROLA 28 aprile 2024: V Domenica di Pasqua - I veri legami sono generativi: liberi!

Vicina è la PAROLA

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28 aprile 2024: V Domenica di Pasqua
Atti 9,26-31 / Salmo 21
1Giovanni 3,18-24
Giovanni 15,1-8

I veri legami sono generativi: liberi!
Sembra ovvio, ma se usciamo dal rapporto di coppia non lo è, e se anche in questo spesso perdiamo il senso di ciò che significa costruire una relazione. 
Lo attesta il fatto che ci può essere fecondità anche senza fertilità, come non basta solo questa per “generare vita”. Così non sono sufficienti i legami di sangue per essere una famiglia, ma sicuramente l’amore è sempre fecondo e, quando autentico e pieno, non esaurisce tutta la sua potenzialità in nessun limite ma vuole raggiungere tutti e non esaurirsi, anzi continuamente rigenerarsi. E’ la sua natura diffondersi e moltiplicarsi, il suo appagamento non appropriarsene: genera persone libere.
Ermeneutica evangelica di Giovanni 15,1-8
In questo nuovo discorso, Gesù esordisce definendosi “Io-Sono la vite vera” (v. 1a).
Sappiamo bene il peso dell’espressione “Io-Sono” che identifica Dio con Gesù Nazareno ed il suo declinarsi come luce, pane, porta, pastore, come via, verità e vita come vite che rappresenta per l’ebreo il possesso di una definitiva condizione di prosperità dopo cure assidue, rischi, speranze: ora solo da Gesù si può ricevere quella vitalità piena a cui tutti gli esseri umani anelano.
L’immagine della vite polarizza tutta la prima parte del capitolo 15 (vv. 1-7) e concentra l’attenzione dei discepoli sulla “nuova alleanza” nella quale stanno entrando con Gesù: l’agàpe è il rapporto stesso tra Gesù e il Padre, esteso anche a loro come “precetto”.
Nella Bibbia “la vite/la vigna” rappresenta l’amore e la cura del Signore per il suo popolo (soprattutto nei profeti come Osea, Geremia, Isaia, Ezechiele…) e quindi Gesù, definendosi “vite quella vera”, così come “il pastore autentico” del cap. 6, si presenta come Colui che il Padre ha voluto “piantare tra noi” dandogli il compito affidato ad Israele: essergli fedele corrispondendo al suo amore con i propri frutti. “Gesù, assumendo quel simbolo, si fa carico anche di quella storia dolorosa di amore deluso, di speranze fallite… e arditamente, alla vigilia di dare la sua vita, morendo sotto il peso della sterilità del suo popolo infedele, afferma: Io-sono la vite vera”.
Le espressioni che usare nel discorso possono essere parafrasate e rivolte a noi: 
Io sono con voi colui che vi dona la pienezza della vita
e della gioia, frutti dell’amore del Padre. 
E, in me, anche voi diventerete vite feconda,
capaci di amarvi con lo stesso amore;
senza la forza della mia parola e del mio amore… 
del mio Spirito in voi, non avrete mai questa capacità.
Nella similitudine “il Padre” ha il compito di “viticultore” (v. 1b) e noi, come i discepoli, quello di “tralci nella vite” (vv. 2 e5); quindi il grappolo, “frutto” sperato e augurato “abbondante”, anche se non ben precisato (il termine ricorre 7 volte nel capitolo), dipende da tutt’intera la vite: noi “in Lui” e Lui in noi tra i quali scorre linfa vitale, l’amore del Padre (cf v. 9)
Perché ci sia “più frutto” occorre che il viticultore se ne occupi: tagliando e potando (v. 2; cf 1Gv 2,19), questo lo fa il Padre che ha a cuore la fecondità della sua vite affinché il suo amore, donato tramite il Figlio, giunga da noi a tutti sempre genuino e vivificante. Sembra che più che il “prodotto”, a Lui stia a cuore il “processo vitale”.
Senza di me non potete fare nulla” (v. 5c; cf 1,3) è un’espressione definisce la conclusione di tutta la storia della salvezza tra Dio e Israele e che determina il destino di tutta l’umanità e di ogni essere umano: la pienezza della vita oltre la propria capacità.
Questo è anche il senso di essere discepoli del Signore e della sua presenza nell’esistenza umana, al di là di ogni pretesa e richiesta (cf vv. 7-8).
Ambientazione liturgica: vivere in comunione
Il capitolo 15 del racconto evangelico di Giovanni, viene proclamato nel “Tempo Pasquale”: la V domenica/B i vv. 1-8 (anche il V mercoledì); la VI/B i vv. 9-17 (anche i vv. 9-11 il V giovedì e i vv. 12-17 il V venerdì); a Pentecoste i vv. 16-27 (i vv. 18-21 anche il V sabato; mentre i vv. 26-27 il VI lunedì). 
Siamo nel tempo della “mistagogia” (cf L. D'Ayala Valva e T. Castiglioni) e la lettura di interi capitoli del racconto giovanneo dà ai credenti una piena consapevolezza del mistero pasquale celebrato (A. Nocent): la loro proclamazione liturgica restituisce anche il processo di composizione di questi testi, nati appunto dall’esperienza post pasquale dei discepoli e delle prime comunità, alla cui luce si rileggono le parole stesse di Gesù e i suoi gesti (vedi gli studi di B. Maggioni; J. Ernst; R. Chiarazzo; U. Neri; S. Panimolle; H. Van den Bussche).
Il Risorto si propone ai suoi come Colui che li lega a sé in un rapporto vitale e lo descrive con precisione: in Lui possiamo rimanere/dimorare, una comunione reciproca, intra e interpersonale, feconda perché generata in noi dalla sua parola e dall’amore ricevuto dal Padre che Egli ci ha donato, un amore che ha la forza di diventare reciproco tra noi.
Sono parole di Gesù ma già vissute allora dai discepoli, sperimentate all’interno della comunità credente come il realizzarsi delle sue promesse, della presenza del suo Spirito, della bellezza e fragilità della fraternità in comunità. 
Il contesto della “cena pasquale conferisce ai capitoli 15, 16 e 17 un particolare “sapore eucaristico” che si riflette sia nel modo in cui viene descritto il nuovo rapporto tra Gesù e i credenti, sia in quell’amore reciproco e di servizio che Egli continuamente ribadisce come “suo e nuovo” comando, frutto del proprio rapporto d’amore con il Padre. Possiamo dire che siano “discorsi della Chiesa su se stessa” e nel 15, mancando l’elemento interlocutorio, di una riflessione che può chiarire il vissuto cristiano, personale e comunitario.
In queste parole del Signore la comunità ritroverà sempre il proprio “rimanere in Lui”, traendo vitalità e gioia dal “dimorare nel suo amore (cf vv. 11-12; verbi che ricorrono 10 volte nel capitolo). Ogni credente sarà curato come figlia/figlio dal Padre stesso; anche le proprie fragilità e le prove saranno occasioni di crescita ed esperienza del suo amore paterno.
Rimanere nel suo amore” da amici suoi (amore ricorre 10 volte, permetterà di qualificare anche i rapporti fraterni in comunità e la misura dell’amare sarà quella di Gesù per noi: “dare la vita” e il donarla sarà l’unico modo per accrescerla.
L’essere “nel mondo” da cristiani non li esimerà dall’odio già manifestato verso di Lui, ma lo Spirito della Verità, il Consolatore che rende testimonianza di Gesù e li renderà suoi testimoni
Preghiamo
O padre, che ci hai inseriti in Cristo
come tralci nella vite vera,
confermaci nel tuo Spirito,
perché, amandoci gli uni gli altri,
diventiamo primizie di un’umanità nuova.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.


Vicina è la PAROLA 5 maggio 2024: VI Domenica di Pasqua L’amore rimane: tu rimani?

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